Il nuovo virus sembrava potesse mettere in discussione lavoro e disuguaglianze. Uno studio americano però conferma il contrario.
In Europa sono oltre 59 milioni i posti di lavoro esposti al taglio delle ore o del salario. Persone che rischiano licenziamenti temporanei o permanenti. Tra i settori più colpiti, i trasporti e le vendite al dettaglio che soffrono il distanziamento sociale e lo svuotarsi degli uffici a vantaggio del lavoro da casa.
Per l’autunno, il bollettino diffuso dallo studio di McKinsey&Company e pubblicato dal New York Times, costituisce un macigno per il Vecchio Continente dove il coronavirus ha mietuto per ora circa 200mila vittime e contagiato oltre due milioni di persone.
I mesi che ci attendono spaventano per il rischio di una nuova ondata e di un secondo lockdown, di cui attutire gli effetti sociali ed economici sarebbe pressoché impossibile. Già nel pieno della fase più acuta dell’emergenza, era chiaro che le conseguenze della pandemia avrebbero investito i lavoratori meno qualificati e settori, che a differenza di quello terziario, non possono funzionare da remoto.
Settembre non è ancora arrivato. E grandi aziende come Lufthansa, EasyJet, British Arways, Virgin Atlantic, Airbus, Renault, solo per citarne alcune, hanno annunciato tagli ai posti di lavoro: in tutto circa 50mila. Dalle compagnie aeree, al turismo passando all’industria e al commercio: anche gli Stati Uniti che sembravano aver recuperato meglio la perdita di posti di lavoro a causa del lockdown sono stati costretti a ricredersi. Sono oltre trenta milioni quelli andati in fumo, soprattutto, come sta accadendo in Europa, per coloro che hanno pochissime o nessuna qualifica.
Presenti in tutti settori, in Europa c’è inoltre un esercito di manodopera di cosiddetti “lavoratori zombie” che lavorando di meno e percependo un salario più basso beneficiano in parte di sussidi statali: il 45 per cento del totale degli occupati. A differenza degli Stati Uniti, i Paesi europei hanno adottato subito politiche volte a limitare l’aumento del tasso di disoccupazione. Nell’Unione europea a giugno ha sfiorato il sette per cento, mentre tra i giovani superato il 15 per cento.
E questi “zombie” saranno i primi a subire le conseguenze della pandemia, perché già molto fragili.
Mentre l’incertezza non sembra attenuarsi – la pandemia non finirà prima della scoperta di un vaccino efficace – l’acuirsi delle disuguaglianze nel mondo del lavoro – come quelle di genere e tra le giovani generazioni – non permette di sperare (almeno per ora) che il coronavirus possa cambiare paradigmi economici oramai cristallizzati da oltre 40 anni. Grazie all’affermarsi del capitalismo e alla globalizzazione.
Parliamo di meccanismi che negli Stati Uniti per esempio vedono il salario di un amministratore delegato o di un capo di azienda 320 volte superiore a un lavoratore “normale”. La fotografia è stata scattata dall’Economic Policy Institute in un rapporto che conferma come il divario tra le buste paga dei ceo e quelle dei lavoratori “normali” si leghi sempre più alla crescita dei mercati finanziari, nonostante la crisi del 2008. E che dal 1965 in poi, quando la globalizzazione muoveva solo i primi passi, non ha fatto altro che aggravarsi.
Lo studio considera 350 delle maggiori società americane in termini di ricavi e si focalizza sulla parte di compensi che i ceo ricevono grazie a bonus e azioni: circa i tre quarti dello stipendio di un manager di azienda è composto dagli utili azionari.
Non è certo il frutto di attività concrete messe in campo per migliorare la produttività delle società che guidano.
Se è vero che agli inizi degli anni Duemila il rapporto era 366 volte più sbilanciato di quello attuale, il susseguirsi di due crisi non tanto distanti nel tempo ha continuato ad alimentare questa disuguaglianza.
Tra il 2009 e il 2019 infatti i salari dei capi di azienda e manager sono cresciuti di oltre il 105 per cento mentre quello dei lavoratori del 7,6 per cento.
Dal 1978 al 2019 la loro paga è aumentata complessivamente del 1.167 per cento, col paradosso che essi decidono in modo autonomo la loro retribuzione.
Non va meglio in Europa. E in Italia. Dove la retribuzione dei capi d’azienda è nove volte superiore rispetto a quello di un qualsiasi lavoratore.
La stortura balza subito all’occhio. La produttività è presupposto indispensabile per tenere in vita le aziende e preservare centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ed è del tutto normale allora chiedersi se, visto il passato, il Covid-19 non sia già un’occasione perduta.