Lavoro e coronavirus. Imprenditori e lavoratori pongono domande alle quali nessuno sa esattamente come rispondere.
Fondamentalmente, il mio lavoro consiste nel rispondere a domande e a cercare di risolvere problemi (o di limitare i danni) alla gente che va a lavorare.
Il carattere eccezionale di questo periodo lo vedi dalla novità delle domande che ti pongono alle quali nessuno ti ha mai potuto insegnare come rispondere.
Nella mia fabbrica ci sono casi di coronavirus, ma l’azienda non vuole chiudere e metterci in cassa integrazione, che facciamo?
Lavoro all’ospedale e non abbiamo i dispositivi di protezione individuale sufficienti, che facciamo?
Faccio il tirocinio, non me lo hanno sospeso, che devo fare?
Il mio coinquilino torna da una zona rossa e ci fa mettere tutti in quarantena, come ci giustifichiamo a lavoro?
Siamo educatori e il comune vuole costringerci a girare casa per casa per l’assistenza domiciliare ma non pensiamo ci siano le condizioni minime di sicurezza, che facciamo?
È veramente complicato dire agli altri cosa fare quando non lo sai manco te cosa fare.
Si gioca di fantasia, con una stella polare: la salute viene sempre, sempre, sempre, prima del lavoro e della produzione.
Ma quanto manca in Italia un sindacato che, a livello pubblico, dica questo senza paura.
In un momento di eccezione, esplode la contraddizione di anteporre la produzione ai lavoratori, alle persone che la produzione la fanno e, allo stesso tempo, la subiscono.
Forse così, io, noi, ci sentiremmo meno soli in questo momento.
E invece navighiamo isolati e a vista
Claudia Candeloro
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