E’ stato calcolato che, nella provincia di Ragusa, vi sono lavoratori sfruttati nel 50% delle aziende agricole.
Caporalato, sfruttamento del lavoro, paghe bassissime, affitti esagerati per vivere in catapecchie prive di qualsivoglia comodità. Ma non solo. Bambini e ragazzi privati del diritto all’istruzione, mezzi di trasporto monopolizzati dagli stessi caporali e manodopera straniera “catturata” nei paesi di origine e, in taluni casi, privata con la forza dei documenti personali.
La situazione, per i lavoratori sfruttati, sembra semplicemente irrecuperabile. Alla luce, soprattutto, di una politica che si diverte ad ignorare il problema.
Nel solo comune di Acate (Rg), negli ultimi anni, la Caritas ha censito circa 2000 lavoratori immigrati vittime del caporalato. In prevalenza nord africani e Rom. Un numero che, se analizzato criticamente, ovvero con la consapevolezza che la maggior parte dei lavoratori sfruttati restano, il più delle volte, invisibili come fantasmi, apre la strada a stime semplicemente agghiaccianti e spaventose.
A preoccupare, inoltre, è la capillare diffusione del fenomeno. Un’azienda su due, infatti, utilizza il caporalato come mezzo principale per reclutare manodopera a basso costo. I lavoratori, infatti, vengono pagati circa 2,5 euro all’ora, per turni di lavoro che vanno dalle 10 fino alle 12 ore al giorno. Turni di lavoro che, il più delle volte, a causa del caldo asfissiante dell’estate siciliana, vengono svolti in notturna.
Il fenomeno è ulteriormente aggravato dal tipo di agricoltura praticata nella zona
In Italia, infatti, nella maggior parte dei casi, il lavoro agricolo ha caratteristiche periodiche o stagionali. Mentre gli agricoltori specializzati lavorano per gran parte dell’anno, fatta eccezione per i mesi piovosi o troppo freddi, la ricerca di manodopera non qualificata avviene in concomitanza di specifici momenti dell’attività agricola: vendemmia, raccolta delle olive, degli aranci e così via.
Nel ragusano però, così come in altri luoghi concentrati, prevalentemente, nel meridione, la ricerca di manodopera non qualificata non conosce pause. I cicli produttivi, infatti, non s’interrompono quasi mai, coprendo un arco complessivo di circa 250 giornate lavorative all’anno. I lavoratori sfruttati, quindi, a loro volta, non conoscono pause o momenti di quiete. C’è sempre del lavoro da svolgere e c’è sempre qualcuno che, per necessità, si trova costretto a farlo per pochi spiccioli.
Il dramma dei lavoratori minorenni
Gli stessi ragazzi minorenni si trovano spesso invischiati in questa spirale di sfruttamento senza vie d’uscita. La scuola è un miraggio praticamente irraggiungibile per il semplice motivo che, il più delle volte, le famiglie non dispongono dei soldi necessari; ma anche perché gli scuolabus neanche raggiungono le aree rurali interessate dal fenomeno.
Fino a qualche anno fa era stata la Chiesa Valdese di Palermo ad interessarsi al problema, finanziando un servizio di trasporto scolastico che aveva permesso, a 15 giovani, d’iniziare un percorso di studi presso l’istituto Giovanni XXIII di Vittoria. Il progetto si era rivelato vincente. I giovani in questione, infatti, avevano iniziato ad integrarsi formando solidi legami con i ragazzi italiani del territorio. Si parlava anche di estendere il progetto a molti altri ragazzi, ma nel luglio 2018, per mancanza di fondi, tutto è finito nel niente. Ad oggi, infatti, solo tre dei ragazzi che hanno beneficiato del progetto stanno continuando a studiare. Gli altri sono tornati nei campi.
Se i giovani non saranno in grado di studiare e istruirsi, allora, non potranno nemmeno integrarsi all’interno del tessuto sociale della zona. In questo modo si troveranno condannati a seguire le orme dei loro padri. Sfruttati nei campi, come fantasmi di cui spesso si nega l’esistenza. Privi di qualsiasi contatto o legame con il “mondo esterno“. Un mondo che, indubbiamente, potrebbe offrire qualche possibilità in più; qualche speranza capace di spingersi oltre la staccionata che delimita il campo di pomodori.
Il contesto abitativo, poi, offre al datore di lavoro nuovi strumenti di sfruttamento.
Le famiglie immigrate sono infatti costrette a vivere in vere e proprie catapecchie. Il più delle volte si tratta di magazzini o capanni in legno, con i bagni, o meglio, le latrine, situate all’esterno. Catapecchie affittate a carissimo prezzo (intorno ai 400 euro al mese), senza acqua e luce. Comfort che, se desiderati, devono essere pagati a parte. In molti casi, inoltre, gli affittuari non possono ribellarsi alle condizioni imposte dai proprietari, per il semplice motivo che necessitano di una residenza fissa, al fine di rinnovare il permesso di soggiorno.
In taluni casi, inoltre, il caporalato ha toccato estremi tragici e semplicemente inaccettabili. Molti lavoratori, soprattutto provenienti dall’Europa dell’est o dai Balcani, vengono infatti reclutati in patria e, una volta giunti sul posto di lavoro, privati dei documenti e anche della paga. Nonostante il gusto tutto contemporaneo relativo allo sfumare e addolcire le parole, difficilmente potremmo trovare un altro termine, per definire la situazione, se non quello di “schiavitù“.
Quel poco che viene risparmiato si perde in indumenti
I pochissimi euro che, pagato il cibo e l’affitto, i lavoratori sono in grado di risparmiare, spariscono immediatamente per l’acquisto d’indumenti nuovi o puliti. I prodotti chimici utilizzati in agricoltura, infatti, se usati senza precauzioni, possono bruciare letteralmente le fibre e i tessuti. La domanda di vestiti, quindi, non s’interrompe mai e non sarebbe assurdo ipotizzare che, presto o tardi, i caporali arriveranno a monopolizzare anche questo mercato, vendendo magliette, cucite con lo sputo, a prezzi esorbitanti, giocando, semplicemente, sullo stato di necessità dei lavoratori.
Una situazione simile, già ampiamente consolidata, si registra nel settore dei trasporti. Le aree rurali dove vivono e lavorano i migranti, infatti, sono spesso ignorate dai trasporti pubblici. I caporali, allora, hanno creato il loro personalissimo sistema di trasporti, facendosi pagare profumatamente per condurre i lavoratori nei centri abitati più vicini. Per andare da Vittoria a Ragusa, ad esempio, possono volerci anche 50 euro. Circa un giorno e mezzo di lavoro.
Non dobbiamo negare che, negli ultimi anni, le forze dell’ordine hanno dimostrato una crescente attenzione al problema del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori. Gli arresti, infatti, aumentano costantemente. Il fenomeno, però, pare semplicemente inarrestabile. Soprattutto alla luce di una politica che, indipendentemente dal suo colore, sceglie, quotidianamente, di passare sotto silenzio un problema che, invece, meriterebbe tutta la nostra attenzione.
Andrea Pezzotta