L’Italia è la patria del superlavoro : cosa si nasconde dietro vecchi luoghi comuni?
Lavoro: troppo per troppo pochi. Lo sostiene una indagine dell’Ocse, che ci classifica al settimo posto nella speciale gara dei paesi più stakanovisti. Sfatando diversi luoghi comuni, duri a morire.
Il Lavoro che non c’è non è solo al centro della nostra Costituzione, ma anche al centro dei tanti dibattiti che occupano le energie di ricercatori, sindacalisti e politici.
Sono passati quasi dieci anni dalla conflagrazione della grande crisi economica, ed è ormai stato accettato che all’origine di tutto vi sia proprio la sottoccupazione di una gran parte della popolazione occidentale – simmetricamente alla concentrazione della ricchezza nelle mani di relativamente pochi capitalisti e professionisti di alta caratura.
A proposito dell’intreccio fra scarsa crescita economica e modesto tasso d’impiego della forza lavoro disponibile con la conseguente diminuzione del benessere, si parla da tempo di “stagnazione secolare” : cioè una fase storica pluridecennale in cui c’è da aspettarsi che la crescita non riparta.
La crisi del lavoro: la tecnologia non porta benessere ?
Perchè? Perché la tecnologia e l’ottimizzazione logistica hanno aumentato la produttività e reso superfluo l’impiego di molte tute blu e di tanti colletti bianchi.
Il cui lavoro viene svolto ormai da robot e software.
Fra proposte di tassare i robot – da taluni tacciate di luddismo, cioè disprezzo puro e semplice per la tecnologia – e le suggestioni pessimistiche di marca malthusiana – che in alcune formulazioni però tendono ad acquisire una coloritura più ottimistica e speranzosa, come nel caso della “decrescita felice”- di sicuro il nodo lavoro-benessere economico e dignità del cittadino si trova al centro di tutto.
Le proposte per un reddito garantito, o di cittadinanza, o di accesso o integrativo, sono come benzina sul fuoco di questa dialettica. Qual è il senso profondo del valore del lavoro?
Il caso Italiano
E poi c’è l’Italia : che come sempre, ama distinguersi (in peggio, in questo caso almeno).
Nel nostro Paese non è la produttività del lavoro – cioè il rapporto fra ora lavorata ( e risorse impiegate) e prodotto immesso sul mercato (che sia un oggetto o un servizio) – a essere causa dell’elevato tasso di disoccupazione, in particolare fra i più giovani.
Non lavora cioè meno gente, in ragione del fatto che meno persone riescono a produrre tutto quanto serve al mercato.
Al contrario: in Italia lavorano poche persone,proprio perché l’arretratezza tecnologica e organizzativa,.la limitata capacità di innovazione, la difficoltà a stare la passo coi tempi, si traduce in una produttività bassa.
Serve più gente per fare le stesse cose.
Soprattutto: serve più gente che lavori più a lungo.
E’ il paradosso della disoccupazione indomabile presente in un sistema produttivo ancora così labour intensive (che quindi richiede manodopera per supplire alle carenze tecniche).
Campioni del superlavoro
Da cui le statistiche Ocse per cui l’Italia è al settimo posto al mondo per quanto riguarda “ore lavorate in un anno per lavoratore” : totalizzando 1.725 ore.
Per dire, l’eterno modello Germania si attesta sulle 1371 ore.
I tedeschi hanno puntato, nel 2002, su un programma di riforme in cui pubblico e privato hanno costruito sinergie (sopratutto in ambito formativo e della programmazione) per rendere efficienti le produzioni e competere sul mercato globale con prodotti ad alto valore aggiunto (per tot investimento di ore lavorate, capitali e altre risorse, il risultato è un prodotto che sul mercato si vende a prezzi molto alti e quindi remunerativo – vedere fra l’altro le analisi chiare e dettagliate di Mariana Mazzucato ).
In Italia abbiamo seguito la strada opposta.
Già negli anni 90 la nostra capacità di competere andava scemando – al di là dei miti sulla piccola e media impresa e sui distretti, sui quali sono fiorite aspettative esagerate -.
Un circolo vizioso
Con la crisi del 2008, il calo delle risorse disponibile ha accelerato un circolo vizioso, per cui si è cercato di recuperare competitività pagando di meno i lavoratori.
Anche perché, una volta adottato l’Euro, non avevamo più la tradizionale carta da giocare della svalutazione della lira con conseguente, artificioso calo dei prezzi dei nostri prodotti – in grado in tal modo di mantenere quote significative dei mercati.
Ma la strada di comprimere stipendi e di chiedere maggiore impegno orario ai lavoratori è stata appunto viziosa, perché ha depresso le disponibilità del mercato interno – ci sono meno soldi a disposizione per gli italiani, che quindi comprano meno prodotti. E le sole esportazioni non ci bastano, anche perché sono ancora troppo spesso, come detto, scarsamente profittevoli.
A lungo andare, l’ingresso nella globalizzazione di lavoratori stranieri in grado di accontentarsi di molto meno ha reso impossibile spingersi più oltre sulla strada della compressione dei salari – per quanto un po’ tutti si sono visti offrire o hanno sentito parlare di offerte di lavoro a 3 o 400 euro mensili…
E’ rimasto solo da chiedere ancor più presenza in ufficio o in fabbrica, a parità di stipendio.
E meno diritti – e meno garanzie.
Da cui il fenomeno ormai dilagante degli straordinari sistematici e non pagati.
Ecco spiegato il nostro paradosso.
Chi sono i poco eroici (ma strenui) stakanovisti del XXI secolo?
In primis i quadri dirigenti, specializzati e molto richiesti. E inoltre, esperti di marketing e comunicazione, pubblicitari, addetti alle consegne, infermieri, consulenti, e dulcis in fundo, “giovani al primo lavoro o con contratti di stage, mal retribuiti e – in teoria – part time”.
Abbiamo detto qualcosa di sorprendente?
Insomma, dietro il luogo comune che l’italiano sia uno scansafatiche, domina la realtà che invece il nostro popolo si è reso troppo disponibile ad assecondare le richieste di un mercato del lavoro molto iniquo.
Pochi lavorano troppo, per avere comunque meno che in passato; e a molti, troppi altri non rimane nulla da fare per impiegarsi – se non a condizioni addirittura umilianti, quando non proprio semischiavili come nel caso del bracciantato che ritorna ad essere molto diffuso nel settore agricolo – e non riguarda solo gli immigrati, com’è ormai ben noto.
Poi certo, una quota molto significativa della popolazione riesce a vivere di rendita, e non lavora : ma questo è un altro discorso ancora.
L’Italia : un bilancio degli ultimi 25 anni di stagnazione e illusioni
L’Italia in passato ha creduto di reggere la concorrenza globale grazie a un rendita di posizione geopolitica che si è esaurita con la caduta del Muro di Berlino : e si è trovata sul groppone un debito pubblico colossale, accumulato perché i governi hanno cavalcato le dinamiche inflattive degli anni 80.
Ora servirebbero tagli alle spese pubbliche per assorbire il debito e rendere sicura la posizione del bilancio pubblico; ma ulteriori tagli, come ha dimostrato la vicenda del governo Monti, deprimerebbero la crescita e quindi inevitabilmente aggraverebbero il rapporto fra debito e Pil (quella dell’austerity in definitiva è la politica neoliberista che ha dominato gli ultimi decenni e ha condotto alla crisi).
E la fine della politica di sostegno monetario, intrapresa dalla Bce, lentamente si avvicina.
Che fare?
Tornato a farsi sentire nel dibattito nostrano, l’ex commissario alla “spending review” Carlo Cottarelli propone con urgenza altri tagli alle spese improduttive.
Mentre il governo non sa bene dove rimediare i fondi necessari ad accontentare le richieste di risanamento che ci arrivano dalla Commissione Europea.
Tra programmi e utopie
Nel frattempo, il sociologo Domenico De Masi propone, in “Lavorare gratis, lavorare tutti”, che i disoccupati si offrano sistematicamente di lavorare gratis.
Per costringere i superlavoratori, data la concorrenza al superribasso, ad offrirsi di lavorare meno – in cambio di paghe più ridotte ovviamente. Lasciando una quota del lavoro necessario agli ex-disoccupati, alfine integrati.
Non a caso, De Masi è uno dei consulenti ufficiosi per l’elaborazione del programma di Governo dei 5 Stelle.
Che da sempre intorno alla decrescita ci danzano.
Al fondo, infatti, la proposta di De Masi assomiglia alla filosofia della decrescita colla sua esaltazione dell’antico Otium – che è un po’ un riflesso speculare della speranza che le nuove tecnologie ci liberino, finalmente, dal (troppo) lavoro.
Ma tutto sommato, come chiarisce l’Ocse, la proposta di De Masi assomiglia a una realtà del mercato del lavoro già in atto da molto tempo.
ALESSIO ESPOSITO