L’assassinio di Mahsa Amini e le proteste di chi non ci sta più

Proteste per Mahsa Amini

Mahsa Amini è stata uccisa per aver indossato male il velo. Arrestata dalla polizia morale di Teheran, è morta lo scorso 16 settembre a seguito delle percosse ricevute. Le donne iraniane non hanno scelto il silenzio, ma la protesta: veli bruciati, capelli tagliati e manifestazioni pubbliche. Tutto per una giovane donna la cui unica colpa è stata quella di mostrare una ciocca in più dei suoi capelli scuri.

Mahsa Amini era una studentessa, una figlia, un’amica, originaria della città curda di Saqqez. Aveva i capelli scuri, lunghi, ma nascosti male sotto il velo che indossava. Da quel velo le usciva una ciocca di capelli. Questo è bastato, affinché una pattuglia di guida della Repubblica islamica dell’Iran, il cui compito è quello di occuparsi dell’applicazione pubblica delle norme islamiche, l’arrestasse. Strappata via dalla sua famiglia mentre era a Teheran , dopo appena tre giorni dall’arresto, è morta.

Le autorità iraniane, nel tentativo di mettere a tacere lo scompiglio, hanno subito dichiarato che Mahsa Amini soffrisse di condizioni mediche preesistenti. Un’affermazione prontamente smentita dalla famiglia. L’ipotesi più accreditata, infatti, è che causare la morte di Mahsa siano state le brutali percosse ricevute dopo l’arresto.

La morte di Mahsa Amini però, non è passata inosservata. Le donne l’hanno vista.

Le proteste

Con il diffondersi della notizia, si sono diffuse le proteste. Alcune donne hanno iniziato a protestare tagliandosi i capelli, davanti ad una telecamera o sui propri social. Altre si sono filmate mentre bruciavano il proprio Hijab. Ma non solo.

Nella giornata di lunedì 19 settembre, in diverse città del Kurdistan iraniano, in molti hanno deciso di scendere per strada. Donne, uomini, bambini, studenti, si sono riversati nelle piazze di Rasht, Mashhad e Isfahan. In risposta, le Guardie Rivoluzionarie iraniane hanno messo in atto una violenta repressione, che ha già causato 5 morti, circa 75 feriti e 250 arresti, secondo i dati riportati da Hengaw, un’organizzazione indipendente che indaga sulle violazioni dei diritti umani nelle zone curde dell’Iran. Di questi dati la televisione di Stato ha confermato solo gli arresti, senza accennare ad alcuna delle vittime manifestanti, colpite presumibilmente da colpi d’arma da fuoco.

Ciò che si chiede attraverso le proteste è che sia fatta chiarezza sulla morte di Mahsa Amini, che vengano fuori i nomi dei colpevoli, che la causa della morte sia inconfutabile e riconosciuta. Ad ampliare i confini delle proteste, è anche la richiesta dell’abolizione definitiva dell’organismo della polizia morale.

I timori che si intrecciano alla storia di Mahsa Amini non sono esclusivamente legati alle donne, che oggi alzano la voce di fronte all’ennesimo caso di una politica repressiva e misogina. Viva è anche la possibilità che la morte di Mahsa Amini funga da scintilla per la ripresa di scontri tra le minoranze curde – tra gli 8 e i 10 milioni di persone nel Paese – e il governo dell’Iran. Scontri antichi, parte di una lunga storia di diritti negati.

L’intervento dell’Onu e le contraddizioni del Presidente iraniano

Ad intervenire è stata anche l’Onu, che ha già denunciato la feroce repressione avvenuta a seguito delle proteste. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ad interim, Nada Al-Nashif, ha dichiarato in un comunicato che “La tragica morte di Mahsa Amini e le accuse di tortura e maltrattamenti devono essere indagate in modo rapido, imparziale ed efficace da un’autorità indipendente competente, assicurando, in particolare, che la sua famiglia abbia accesso alla giustizia e alla verità”.  Mentre Joseph Borrell, capo della diplomazia dell’Unione Europea, ha condannato e definito la morte di Mahsa Amini come inaccettabile.

Di fronte alla rabbia dilagante per la morte di Mahsa, il Presidente iraniano Ebrahim Raisi, ultraconservatore, ha promesso di aprire un’inchiesta per arrivare alla verità su quanto accaduto. Tuttavia, ad inasprire ulteriormente le leggi che la polizia del buon costume si impegna con violenza a far rispettare, è stato proprio lui.

Ormai da quarant’anni, dopo la rivoluzione islamica del 1979, i Mullah al potere controllano le donne, prendendo decisioni su come debbano vestirsi, valutando cosa sia conveniente che mostrino e sentenziando cosa sia proibito scoprire.

Mahsa Amini mostrava troppo dei suoi capelli, nonostante indossasse l’Hijab.

Hijab: una scelta o un obbligo?

In Iran, così come in Arabia Saudita e in Afghanistan, indossare il velo non è una semplice scelta, ma un obbligo sancito giuridicamente dal 1979, nonostante nel Corano non venga ritenuto vincolante.

La parola araba “Hajaba”, da cui deriva il termine “Hijab”, significa proteggere e nascondere. In genere, i musulmani osservanti prevedono che una donna inizi ad indossarlo con l’arrivo dell’età dello sviluppo, dopo la comparsa del primo ciclo mestruale. In tal modo, viene garantito il pudore femminile e l’onore maschile. Fondamentale per la donna che indossa lo Hijab, sarà farlo in presenza di tutti gli uomini con cui non ha nessun legame familiare, mentre le sarà consentito mostrare i propri ornamenti – ossia i capelli – solo dinanzi ai propri consanguinei e al proprio marito.

D’altra parte, le nuove generazioni di donne mal tollerano l’imposizione del velo, vissuto sempre più spesso come simbolo di controllo e dominio del maschile sul femminile. La sola scelta di togliersi il velo, sciogliere i capelli al vento, non indossarlo e sventolarlo sopra la propria testa, costa alle donne iraniane dieci anni di carcere, con tutto ciò che esso comporta. A Mahsa Amini, il velo scomposto, è costato la vita.

Angela Piccolomo

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