La letteratura e la cinematografia sui vampiri sono sterminate. Le credenze popolari su tali creature sono lontane dall’attuale cultura occidentale – e sarebbero troppo disgustose per la sua sensibilità. È venuta meno anche la freschezza ottocentesca, che diede vita al Vampiro di J.W. Polidori, alla Carmilla di S. Le Fanu e (soprattutto) al Dracula di B. Stoker.
Saghe come Twilight di S. Meyer mostrano che la figura del succhiasangue sta raschiando il fondo del barile. Non si sa più cosa inventare. Nella società liquida, il vampiro è “uno di noi”, come chiunque. Come ristabilire quella sua “anormalità” che lo rendeva fonte d’orrore?
Parrebbe impossibile, ma J. A. Lindqvist ce l’ha fatta. Il suo Lasciami entrare (Stoccolma 2004) è ormai un thriller celebre, trasformato in film (2008; regia di Tomas Alfredson). Di quest’ultimo, esiste anche un remake hollywoodiano, scritto e diretto da Matt Reeves: Blood Story (Let Me In), 2010.
Com’è riuscito nel miracolo? Recuperando le credenze del folklore, ma privandole dell’apparato di feticci a cui i vari Dracula ci hanno abituato: per Lindqvist, Bela Lugosi’s dead, punto e basta. Via la bara, via il mantello, via le vergini sonnambule. Anzi: via il vampiro maschio e magnetico che si circonda di schiavi e docili spose. Via le sue sorelle procaci e femmine fino al midollo.
“Io non sono niente. Non sono una bambina. Non sono una vecchia. Non sono un ragazzo. Non sono una ragazza. Non sono niente.” (J.A. Lindqvist, Lasciami entrare, Superpocket , p. 170)
Un angelo, in pratica. Anche se non di quelli che si dipingono con alucce e aureola. Così si presenta Eli all’amico Oskar. Quest’ultimo è un ragazzino di Blackeberg, sobborgo di Stoccolma. A scuola, è quotidianamente vessato da un gruppo di bulli. Solo due spiragli di luce gli si aprono.
Uno è l’amicizia con Eli, una ragazzina dodicenne (o così parrebbe) che si è appena trasferita in loco. Un altro (ben cupo) è la notizia d’un serial killer di adolescenti: chissà che, finalmente, i bulli non incontrino la propria ora… Così pensa Oskar, che sente nascere dentro di sé un lato omicida.
Solitudine e bisogno d’uccidere per vivere. La necessità di violenza, nato dalla violenza subita. Questo è il codice comune che avvicina i due protagonisti. Anche se Eli, per Oskar, è un continuo enigma. Non dev’essere un caso, se i giochi preferiti di lei sono i puzzle. Impossibili per lui, per l’amica sono un nonnulla. Per chi ha compreso il mistero della vita e della morte, niente può essere oscuro.
Eppure, Eli ha i propri limiti. Non può esporsi alla luce del sole. Non può nutrirsi di alcunché, se non di un alimento difficile da procurarsi senza far del male ai propri simili. E non può accedere ad alcun luogo, se qualcuno non le dà l’esplicito permesso di entrare.
“Lascia che una persona entri nella tua vita e ti farà soltanto del male.” (Op. cit., p. 217)
Così riflette Virginia, inconsapevole di riecheggiare il titolo del romanzo in cui si trova. Il suo uomo l’ha appena offesa mortalmente e lei sta fuggendo nella notte. Si troverà così, suo malgrado, a essere il secondo anello di collegamento fra la storia di Eli e quella di un gruppo d’amici ubriaconi: uomini che paiono vivere per inerzia. Hanno dimenticato la terribile forza della voglia di vivere. Inevitabile che essa li prenda alle spalle e ne faccia prede. Come succede al nostro cuore, quando lasciamo che qualcuno vi entri troppo.
Oltre a Oskar, Eli ha al proprio fianco Håkan. Un ex-insegnante, che della vita ama solo due cose: la cultura e i bambini. Peccato che questi ultimi gli piacciano in un senso non propriamente sano. Håkan non può vivere nella società perbene, che l’ha bandito; ma non si trova a proprio agio nemmeno nelle tane della prostituzione minorile, che gli altri pedofili di sua conoscenza frequentano abitualmente. Non ha altro motivo di vivere, se non Eli. Eli, che ha
“…gli occhi di Samuel Beckett nel volto di Audrey Hepburn.” (p. 110)
Si rassegna, perciò, a vivere innamorato di una persona per cui lui è superfluo. Superfluo in senso affettivo, necessario soltanto per procurarle nutrimento.
Sarà un caso se “Eli”, in ebraico, significa “Dio mio”? Lo nota anche un poliziotto, fraintendendo i rantoli di Håkan (ma è un fraintendimento eloquente). L’ultima parola di Håkan, prima di un gesto disperato, è la stessa di Cristo crocifisso. L’amore, inteso come adorazione assoluta e a senso unico, culmina nell’autodistruzione.
Come finirà la storia di Eli e Oskar? Come va a finire la vicenda di chi lascia entrare in sé le più terribili consapevolezze di cui sia capace un essere umano? Non possiamo raccontarlo qui, per non scadere nello spoiler. Ma una cosa è certa: il finale, sia pur “lieto”, sarà grandioso e tremendo.
Erica Gazzoldi