L’Aquila e il sisma – Sono ormai passati 10 anni da quel 6 aprile 2009; 309 furono le vittime, 80.000 gli sfollati tra il capoluogo abruzzese e borghi circostanti. Anche stanotte una fiaccolata omaggerà le vittime delle 3 e 32.
E’ una notte di dolore e la fiaccolata non mancherà: il corteo partirà da via XX settembre (22:30); ci sarà una sosta in corrispondenza della Casa dello Studente, per poi proseguire in direzione della Villa Comunale – attraversamento del perimetro viale Crispi, via Iacobucci e viale Rendina e prosecuzione lungo Corso Federico II. Come di consueto, l’arrivo sarà in Piazza Duomo.
Il sisma aquilano continua a mietere vittime; quella notte non è bastata: dopo 10 anni alimenta controversie, malumori, una continua ripercussione su ciò che è rimasto della città. Quando pronunciamo la parola “terremoto” ci riferiamo ad un evento naturale devastante e imprevedibile, ma difficilmente se ne conosce la portata se non lo si vive. Questo non è certo per sottolineare la mancanza di qualcuno, poiché qualcosa di simile non lo si dovrebbe augurare a nessuno.
Oggi continuano le polemiche: quanti soldi sono stati spesi? Quanti ne sono spariti? Chi ha offerto di più? Articoli riportano addirittura una scaletta di “donazioni” effettuate durante gli anni successivi al sisma, elogiando forse qualcuno e screditando chi ha dato aria alla bocca. Altri citano alcuni cittadini, intervistati per le strade, che ti parlano di una città morta, che sottolineano quanto sia difficile resistere. Poi, però, leggi che gli intervistati sono due pensionati che camminano per un centro storico deserto e allora diviene più semplice comprendere il punto di vista.
Ogni argomento è papabile, a suo modo; ogni argomento ha un suo senso. Se dovessi descrivere ciò che ho vissuto gli ultimi anni a L’Aquila (fino al 2014/2015) e quello che oggi vedo quando torno a casa, mi verrebbe forse da dire che qualcosa si stia muovendo. Certo, è un punto di vista come un altro, opinabile sicuramente: da un lato mi rendo conto che la ricostruzione ha ingranato solo negli ultimi anni, che sono in molti a non essere più tornati a casa; mi rendo conto di quanto sia semplice parlare per chi questa famosa casa ce l’ha ancora rispetto a chi vive in un progetto C.A.S.E., il quale, ogni tanto, perde qualche pezzo.
Dall’altro lato, invece, mi rendo conto della situazione strutturale; mi rendo conto di una città, come moltissime in Italia, di stampo medievale, per cui di difficile ricostruzione. Comprendo le esigenze architettoniche e le tempistiche e non riesco, fino in fondo, ad incolpare nessuno; non quando, ogni tanto, girando per le strade, scorgo una casa nuova, ristrutturata o una luce accesa nel bel mezzo del centro storico. E allora lì mi chiedo: “ma gli aquilani ci vedono? Un terremoto è pur sempre un terremoto”.
E’ anche vero, però, che l’Italia è pur sempre l’Italia. E allora chi ha ragione? Chi ha sbagliato? Chi incolpare questa volta?
Il punto è questo: mi reputo un “profano” del sisma. Ho vissuto la catastrofe e ho provato paura, avevo 17 anni; ma ho una casa, sono stato “graziato”, se così si può dire. Nella mia mente ho le sensazioni di un incubo, ma al tempo stesso non ho altro di cui “lamentarmi” – passatemi il termine antipatico. Sia chiaro, non intendo evidenziare questo come fosse un parallelo costruttivo, non reputo in nessun caso che il dolore vada messo a paragone. Quest’ultimo meno fra tutti.
La mia è una riflessione che forse ha più le sembianze di uno sfogo personale. Un piccolo appunto per definire quanto ognuno di noi sia stato colpito, a suo modo. Chi ha perso i propri cari, chi una casa, chi un amico, chi il lavoro, ma tutti noi aquilani ci portiamo addosso qualcosa. Alcuni, come me, fanno finta di nulla e non posso certo biasimarli; ma chi, d’altronde, può essere biasimato in tutto questo?
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo”. E’ questo l’aforisma di Josè Saramago che lo scorso anno è stato utilizzato dal Comune di L’Aquila; è lo stesso che propongo oggi: i miei concittadini hanno ferite aperte e difficilmente potranno essere compensate. Alla luce di ciò, ricordare appare la cosa più insensata ma, al tempo stesso, fondamentale. Questo è il paradosso che ci tiene legati alla nostra terra, seppur spesso screditata e moralmente abbandonata: che sia una fiaccolata, un momento introspettivo, un pensiero rivolto al cielo o alla terra, non credo sia importante; convivere con il proprio dolore e dargli una forma, tramutarlo in energia e riprendere le redini: questo reputo importante. Questa è ciò che chiamo la “dignità dell’essere vivi”.
Eugenio Bianco