L’appiattimento provocato dal liberismo, determina l’incapacità di inserire la variabile temporale nei ragionamenti di troppe persone.
L’appiattimento sul presente provocato a livello culturale ma direi anche neurologico (una regressione verso il verme che eravamo) dal liberismo e dalle sue tecnologie, ha fra le sue conseguenze l’incapacità di inserire la variabile temporale nelle analisi e nei ragionamenti di troppe persone.
Per millenni le civiltà umane sono state caratterizzate dal confronto con il passato e il futuro, entrambe dimensioni estranee all’esperienza sensoriale immediata e in quanto tali di fondamentale importanza per lo sviluppo della capacità di astrazione. Poi sono arrivati il consumismo e l’obsolescenza programmata all’americana, a prevenire la transgenerazionalità e il consolidarsi di tradizioni e dunque la possibilità di opporre una coscienza collettiva e un senso di identità e appartenenza all’avidità degli spacciatori di edonismo e di attualità (prodotti usa e getta, mode, breaking news e altra pornografia; mobilità spaziale compulsiva a compensare la scomparsa della durata).
Non è un caso che la metafora dominante e indiscussa della nostra epoca sia quella della crescita (spesso in inglese, growth), mutuata dalla vita biologica ma dopo averla privata non solo della sua fine (la morte) ma anche del suo fine, la maturità, il compimento dello sviluppo, la sia realizzazione e cessazione.
Il liberismo è sviluppo senza fine e senza fini e la sua pertanto non è affatto crescita bensì delirio di onnipotenza, illusione di eternità, complesso di Peter Pan (rifiuto di diventare adulti, tipico di così tanti “ragazzi” ventenni, tentenni, cinquantenni italiani), rimozione di ogni limite (l’apeiron che la filosofia greca tentò di esorcizzare politicamente ed esteticamente con i concetti di polis e di misura) e di ogni memoria, di ogni Storia.
I “social” (tipico americanismo menzognero: si tratta infatti del dispositivo più asociale inventato dall’umanità) sono la palestra di questa liberalizzazione e privatizzazione della mente, nel senso che la liberano dai vincoli culturali, morali e sociali in nome del diritto inalienabile all’egoismo e alla felicità privata e istantanea (così la dichiarazione d’indipendenza americana; Freud invece lo chiamò principio di piacere, infantile, opponendogli il principio di realtà di chi sa anticipare bisogni futuri, individuali e collettivi). Ogni navigazione su facebook me lo conferma: così pochi interventi che siano il frutto di reali esperienze (etimologicamente: diventare perito, esperto, ossia mettere a frutto cose imparate precedentemente) e che conservino una qualsiasi rilevanza alcune ore dopo essere stati scritti. L’ossessione è quella di reagire “in tempo reale”: un calco dall’inglese, guarda caso, a suggerire che il tempo “vero” sia solo l’immediato e che le decisioni vadano prese in fretta, senza riflettere, di solito applicando un algoritmo preconfezionato.
Occorre prendere coscienza che una cultura e una politica prive di spessore temporale, ossia di un passato e di un futuro, favoriscono la dittatura di chi ha già soldi e potere e intende mantenerli a qualsiasi costo, incluso quello di mandare in malora la società e l’ambiente. Occorre trasformare i social in strumenti di solidarietà che facilitino rapporti concreti e la formazione di comunità territoriali, limitate nello spazio ed estese nel tempo. Occorre usarli per condividere storie e pensieri, cioè processi trasformativi, invece che reazioni istintive, salivazioni automatiche tipo quella del cane di Pavlov.
Problematico? Faticoso? Frustrante? Certo, ma meno di altre sfide che le precedenti generazioni hanno avuto il coraggio e la tenacia di affrontare, malgrado condizioni molto più difficili e rischi molto maggiori.