Parlare di lapidazione per adulterio fa orrore. Ha sempre dell’inverosimile quando si leggono ancora casi, al giorno d’oggi, di società patriarcali, in cui alla donna non sono riconosciuti diritti, e le pene sono sempre spropositate a danno del genere femminile. Ma fa ancora più specie quando le condanne provengono da chi si dovrebbe fare fautore della legge, come i giudici di tribunale.
Eppure la lapidazione fa ancora parte del sistema penale di alcuni paesi, ergendosi a volontà di espiazione pubblica di una presunta colpa, da consumarsi in lenti attimi di atroce rituale. E lo stesso significato lo troviamo sotteso anche nel caso della lapidazione per adulterio.
Stavolta la vittima, ancora una volta donna, è una giovane ragazza sudanese che, probabilmente, per salvarsi potrà contare solo sull’appoggio umanitario proveniente da tutto il mondo, che sta chiedendo a gran voce la sua grazia. Non potrà invece fare affidamento sulla giustizia del suo Paese, sebbene non sia ancora detta l’ultima parola.
Lapidazione, una pratica ancora troppo diffusa
La condanna capitale inflitta tramite lapidazione è prevista ancora in diversi paesi, solitamente di fede musulmana, dove tra i reati più gravi puniti tramite questa crudele pratica è annoverato l’adulterio.
Possiamo citare, tra questi, la Nigeria, l’Arabia Saudita, il Pakistan, l’Afghanistan, gli Emirati Arabi Uniti, lo Yemen e il Sudan.
In Nigeria e in Sudan alcune esecuzioni sono state bloccate grazie alla pressione esercitata a livello internazionale. Mentre in Iran sembrava essere stata abolita nel 2012 per poi essere reintrodotta un anno dopo solo per il ‘reato’ di adulterio.
Ed è proprio nel codice penale iraniano, ancora oggi in vigore, che possiamo rinvenire alcuni passi che denotano l’atrocità con cui viene prescritta la modalità di attuazione della lapidazione:
Le pietre utilizzate per infliggere la morte non dovranno essere troppo grandi per evitare che il condannato muoia dopo essere stato colpito una o due volte; non dovranno neppure essere così piccole da non poterle chiamare pietre.
La storia di Amal
Il caso di lapidazione per adulterio di cui andiamo a parlare riguarda Amal, ragazza ventenne del Sudan. Amal non è il suo vero nome, ma un nome di fantasia che significa ‘speranza‘. È stato il suo avvocato difensore a chiedere di preservare l’anonimato dell’assistita, e la scelta del nome non è causale.
Una piccola speranza resta ancora di poter essere salvata. È infatti attesa la decisione della Corte , con l’augurio che possa ribaltare la sentenza di condanna di primo grado. Ma andiamo per ordine.
Amal, dopo essersi separata dal marito nel 2020, era tornata a casa dai genitori, che l’hanno sempre protetta e supportata. Denunciata dall’ex marito per adulterio viene arrestata un anno dopo.
Il processo, svoltosi in primo grado nel Tribunale di Kosti, nello Stato del Nilo Bianco, può definirsi una totale farsa: la polizia ha riportato una confessione ottenuta illegalmente e, come se non bastasse, alla ragazza è stata negata perfino la difesa dell’avvocato, oltre al mancato ascolto dei testimoni. Nonostante però le evidenti irregolarità è stata emessa sentenza di condanna il 26 giugno scorso.
È atteso a breve il verdetto finale, a seguito dell’impugnazione della decisione. Da lì si deciderà il destino della povera Amal.
Un aiuto internazionale per salvare Amal
In soccorso della ragazza sudanese è partita una campagna internazionale, che raggruppa ben 17 associazioni portatrici della voce indignata di tutto il globo.
La petizione è stata lanciata dall’Ong internazionale Avaaz, organizzazione già nota per aver avviato operazioni attiviste su tematiche importanti come la povertà, i diritti umani, i diritti sugli animali, i conflitti e la corruzione.
E ora, grazie anche al tam tam mediatico che si sta diffondendo sul web e sui social, la petizione in cui si chiede la sua salvezza sta facendo il giro del mondo, e la speranza è che possa esercitare la giusta pressione per fermare l’ennesimo omicidio.
Non è la prima volta che donne condannate a morte per presunti reati e con pene disumane sono state salvate proprio grazie a campagne internazionali di questo tipo. Pensiamo ad esempio al caso simile di Safiya Husseini, ragazza nigeriana salvata dalla pena capitale grazie alla raccolta di firme e alle insistenti pressioni inviate all’ambasciata della Nigeria.
E ora non possiamo che sperare nello stesso risultato.
Le donne in Sudan
La lapidazione per adulterio è ‘solo’ una delle tante piaghe che affligge lo stato del Sudan. Le donne lottano per i loro diritti e le loro libertà da tempo.
Già tre anni fa infatti le donne si sono esposte in prima linea durante la rivoluzione per la democrazia. E la stessa Amal vi aveva preso parte.
Oggi, dopo il colpo di stato militare, nulla è cambiato per il mondo femminile, a cui è perfino negato di partecipare attivamente alla vita pubblica. E anche la causa di Amal conferma l’assenza di diritti per le donne.
La situazione attuale sembra voler riportare alle forme di repressione del regime di Omar Al-Bashir, ex presidente del Sudan defenestrato dai militari nell’aprile 2019.
Solo la sensibilizzazione a livello internazionale potrebbe essere in grado di esercitare una pressione così forte da portare finalmente qualche segnale democratico nel Sudan.