Tra un preciso periodo storico e un movimento che in esso sorge, vi è ampia lontananza. Una divergenza temporale che assume portata morale. Così, se “Fascismo” è il lungo e drammatico frangente di 20 anni in cui nasce, si rafforza e muore un’ideologia aberrante, “Antifascismo” è moto e reazione estraneo alla stessa circoscrizione temporale. Dal fascismo promana, ma in esso non si esaurisce, ha dovuto farsi collaboratore della storia nella sua accezione di “maestra”.
Perché dunque, riconoscere la tragicità di un passato dittatoriale e condannarne senza esitazione ogni aspetto, dovrebbe essere tendenza della sola sinistra?
Risulta immediato, spontaneo, seguendo gli attuali dibattiti in Italia, domandarsi se l’antifascismo appartenga a specifiche correnti politiche. Nonostante tale concetto non abbia mai privilegiato predefinite ideologie, sembra progressivamente svanire la sua funzione di collante delle disarmonie per divenire elemento divisivo.
Così attorno ad esso, si creano vere e proprie posizioni contrapposte, dalle quali sgorgano vicendevoli accuse.
La contraddittorietà di tale dualismo forzato con quanto narra la storia, è evidente. La partecipazione attiva di liberali, cattolici e conservatori alla lotta di Resistenza, narra di come, sin dal principio l’antifascismo abbia rappresentato una pluralità di posizioni. Rilevante contributo alla lotta di liberazione è stato dato proprio dalla destra, dai gruppi armati ad essa orientati agli intellettuali liberali dichiaratisi vicini alle istanze del mondo operaio e del socialismo.
Quando dunque l’antifascismo è divenuto prerogativa unica della sinistra?
Due dinamiche confusionarie sembrano essersi spostate nella stessa direzione per creare tale discrepanza. Se da un lato il partito comunista dal 900 ha assimilato e fuso se stesso all’antifascismo, dall’altro la stessa percezione esterna della destra ha portato a un suo allontanamento da esso, come presa di distacco dal pericolo sovietico.
Nella creazione di una diretta proporzionalità tra antifascismo e comunismo risiede perciò la ragione di una distorsione pericolosa. Dannosa nella misura in cui figure di spicco dell’alveo politico optano per collocare sè e la relativa corrente in un fuorviante schema dicotomico.
“Io fascista? Piano con i complimenti” Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato
“Rivendico con orgoglio di essere fascista, se fascista vuol dire cacciare a pedate nel sedere i clandestini e gli irregolari” Daniela Santanchè, attuale ministra del Turismo.
Parole queste, che nella cecità percorrono l’onda dell’eccessiva semplicità. Perché coraggioso, al contrario, sarebbe rompere la narrazione tipica, fuoriuscire dal modello antico e valorizzare ideali e opinioni preservando il filo comune e unificante del rifiuto di un passato palesemente fallimentare.
“Il fascismo è stato consegnato alla storia” ha ragione Meloni. Ma non lasciamo che siano le circostanze a muovere parole e posizioni. Parlare di fascismo è anacronistico ma lo stesso non può dirsi dell’antifascismo.
Perché riconoscere dignità alla politica e restituirne alla memoria significa saper incidere linee sicure sul tratteggio delle consapevolezze.
Proprio queste ultime devono essere la lente attraverso cui leggere e analizzare l’operato di qualsiasi governo, specie l’attuale, data la ricchezza di personaggi emotivamente vicini al ventennio, che lo configurano.
Tenere costantemente alta l’attenzione sui diritti dovrebbe essere attitudine universale e questo è, antifascismo.
Giorgia Zazzeroni