L’amore è gayezza

 


Di Roberta Denti


La transizione è sempre un sollievo. Destinazione significa morte per me. Se riuscissi a trovare un modo per rimanere per sempre in transizione, nel disconnesso e nel non familiare, potrei rimanere in uno stato di libertà perpetua.

David Wojnarowicz (1954-1992)

Anni fa danzavo con le drag-queen al Madonnathon, maratona musicale e performativa dedicata a Madonna che si tiene ogni anno il 16 agosto, giorno del suo compleanno, allo Stonewall Inn nel Greenwich Village di New York. Fu allora che sulla pista da ballo una di queste maestose regine del travestimento mi disse: “Baby, you are a gay man in a woman’s body!”.

Fu una rivelazione per me, che mi fece capire tra una sculettata e uno strike the pose il perché della mia variopinta natura.

Negli anni Sessanta, lo Stonewall, dove ancora oggi si respira la puzza del seedy underbelly, quel ventre molle e poco raccomandabile della New York dei tempi passati – un amico gay, regular di lungo corso dello storico bar sostiene che è un misto di birra e cum – era l’unico locale a consentire agli omosessuali, alle lesbiche, alle trans e ai “reietti” della puritana società americana di ritrovarsi, di ballare, di bere alcolici. Di fare comune tra gli outsider.

A gestirlo era la famiglia mafiosa dei Genovese e la polizia si divertiva a compiere rituali irruzioni per abusare e arrestare i frequentatori della bettola. Ma il 27 giugno 1969 arrivò il punto di rottura, enough is enough, quando durante uno dei violenti raid dell’omofobo corpo della NYPD, Sylvia Rivera, transgender divenuta poi attivista, reagì ai soprusi, almeno così narra la leggenda, lanciando una bottiglia contro la macchina della polizia.

Quella reazione stremata e giustificata alla violenza sommaria fu la scintilla che diede fuoco ai moti di Stonewall, la notte di guerrilla urbana che segna l’inizio della lunga e travagliata storia del movimento per i diritti della comunità LGBTQIA+ negli Stati Uniti.


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Over the Rainbow: la bandiera arcobaleno, simbolo dell’orgoglio della comunità LGBTQIA+, fu creata nel 1978 da Gilbert Baker e sbandierata per la prima volta il 25 giugno dello stesso anno al Gay and Lesbian Freedom Day Parade di San Francisco. La bandiera è stata acquistata dal MoMA di New York, dove ho potuto ammirarla molteplici volte nelle mie scorribande “niuorchine”.

Lo Stonewall è sempre stata una delle mete del mio gaio pellegrinaggio nella città che non dorme mai, dove “non ho dormito” per anni, cambiando appartamenti, lavori, amanti con il frenetico ritmo tipico dei newyorkesi. La città che non dorme mai perché troppo impegnata a peccare. Dal tramonto all’alba e dall’alba al tramonto, la Big Apple stuzzica il palato sensoriale con un susseguirsi frenetico d’incontri/scontri tra corpi, culture, razze, religioni, la mecca assoluta e dissoluta di qualsiasi peccatore con tanto di pedigree. La città dalle mille luci non soffre d’ipocrisia sessuale, anzi s’offre come un’eccitante e variopinta FuckLand, dove cogliere qualsiasi frutto proibito. O forse uno Strange Fruit, come cantava la coraggiosa Billie Holiday in quella canzone che portò sui palcoscenici il coraggio di esprimere un esplicito messaggio contro il razzismo. Lo “strano frutto” si riferisce infatti al corpo di un uomo che penzola impiccato da uno dei magnifici alberi del Sud degli Stati Uniti per mano di quegli incappucciati del cazzo del Ku Klux Klan.

Vanto una duratura love-story con l’inebriante e tentacolare Gotham City che visitai per la prima volta nei tardi anni Ottanta: avevo solo 16 quando sbarcai dal bus Greyhound, quello del levriero, per concedermi una giornata di folle libertà a Times Square, fuggita e sfuggita al controllo parentale – negli anni ’70 soprannominato The Deuce, quartiere a luci rosse, lurido ricettacolo di prostitute, spacciatori, drogati e cinema porno, una girandola di lucine al neon, insegne XXX, lestofanti e traffichini.

Negli anni Novanta, andai a studiare a NYU dove m’innamorai di fascinoso indiano Sikh dalla folta chioma, con cui vissi un’intensa e appassionata stagione d’amore, sperimentando peripezie esotiche ed erotiche. Io e Vikram abitavamo a pochi isolati da Harlem, dove ci lanciavamo in scorribande nei club di musica jazz – slang per energia, vigore, anche sessuale – tra cui l’iconico Apollo Theater, teatro per eccellenza dei musicisti di colore, e The Birdland, altro storico locale.

Dopo l’11 settembre 2001, tornai in una NY post-apocalittica – il motto allora da I Love New York, l’iconico logo con il cuore creato nel 1976 dal designer Milton Glaser divenne I Love NY More Than Ever – e scelsi il gaio quartiere di Chelsea, popolato da stravagante umanità a pochi isolati dal Meatpacking District, un tempo epicentro della prostituzione. Il mio bugigattolo si trovava vicino al leggendario Chelsea Hotel, dove commisi stupefacenti atti impuri, (in)degno tributo alla rockeggiante e decadente eredità del mitico luogo che negli anni 60/70 fu la tana di una miriade di artisti, musicisti e scrittori, tra cui Janis Joplin, Bob Dylan, Patti Smith, Robert Mapplethorpe, Leonard Cohen, Jack Kerouac, i seguaci della Factory di Andy Warhol, ecc.

Nonostante l’immane tragedia, o forse proprio in reazione a essa, ricordo quel periodo come denso di umanità, solidarietà e spassoso sesso. Tra tutti i sessi. Il sesso era l’unico antidoto alla distruzione, Eros & Thanatos, primordiale istinto basico ed elisir vitale.  Inoltre, allo scoccare del Terzo Millennio non eravamo ancora inebetiti dagli inermi schermi digitali e non ricorrevamo ad app per cuccare ma ci rincorrevamo per le strade, in metropolitana, nei locali, dove il bizzarro crogiolo multietnico si accoppiava per scacciare paure e malinconie.

Per innamorarsi, godere e vivere appieno e in pieno quello storico momento che sconvolse il mondo.

Nel 2018 cazzeggiando per isolati ed isolati in giro per l’isoletta, il modo migliore di scoprire e curiosare la vita, visitai per pura fatalità una mostra al Whitney Museum che mi prese cuore e ventre: History Keeps Me Awake At Night, importante retrospettiva dell’artista David Wojnarowicz, fotografo, scrittore, attivista dei diritti della comunità gay e portavoce infuriato e disperato dei primi malati di AIDS, malattia che gli costò la vita nel 1992.  Quando morì a soli 37 anni per complicazioni dovute all’AIDS, scrisse:

Rendere il privato qualcosa di pubblico è un’azione che ha terribili ramificazioni.

Il suo corpus di lavori comprendeva fotografia, pittura, musica, film, scultura, scrittura e attivismo. L’apogeo della sua arte fu negli anni ’80, in quella febbrile e creativa ondata d’energia, in una New York sporca e malfamata, crocevia di numerosi scambi culturali e musicali: graffiti, musica new-wave, fotografia concettuale, che fecero della Grande Mela un vero e proprio laboratorio artistico.

Oggi Times-Are-A-Changin’ nella massiccia gentrificazione che ha trasformato New York – ben ritratta nel film Joker – in una Disneyland a uso, abuso e soprattutto consumo di superricchi e turisti, privata del “seedy & smelly side,” il lato losco e sporco che fu il fulcro delle correnti artistiche, musicali e letterarie del secolo passato.

Ricordo di aver vagato per le immense sale del Whitney in preda alla commozione per le immagini forti e dolorose scattate dall’artista ai primi malati, ridotti a scheletri e abbandonati da tutti in quell’epidemia atroce che nei primi anni Ottanta veniva chiamata “il cancro dei gay” – e pertanto bellamente ignorata dall’amministrazione repubblicana con Reagan presidente degli Stati Uniti. Per i bigotti, per i conservatori, per i timorati di Dio l’AIDS, che colpiva prevalentemente omosessuali, tossicodipendenti e in generale gli emarginati, fu una “manna dal cielo” che spazzava via la spazzatura umana.

Nato e vissuto come un emarginato, cresciuto ad abusi, sbarcato ragazzino a Manhattan, dove si prostituiva tra Times Square e Hell’s Kitchen nella sua compulsione di contatti sessuali con gli sconosciuti, Wojnarowicz vedeva nell’outsider il vero soggetto della sua arte. La sua inquietudine esistenziale nasceva dal rifiuto della società in cui viveva ma alla quale nonostante tutto chiedeva fosse riconosciuta la sua diversità. Appassionato, oserei passionario, sostenitore dei malati di AIDS, malattia che sterminò una generazione di amici conoscenti e amanti dell’artista, si scagliò con i suoi lavori contro l’inazione del governo, in quella tremenda crisi dell’AIDS, di cui si fece paladino con la sua arte furiosa e dolorosa.

Rimasi nel museo per ore. Osservai ogni fotografia. Con dolore. Lessi ogni frammento di scrittura. Piansi nel vedere un cortometraggio dedicato alle anime sperdute e perdute del Lower East Side e dei Piers, la zona degli imbarchi dismessi sul fiume Hudson dove negli anni Settanta gli omosessuali consumavano incontri occasionali, nell’oscurità e nell’anonimato, tela industriale che vide nascere l’arte dei graffiti. Nel suo memoir Close to the Knives, Wojnarowicz ricorda tutto: la curva di un braccio, di una schiena, il profilo di un collo che appare in una stazione, in mezzo alla folla, intorno a cui si potrebbero scrivere intere poesie.

Condivido da molti anni una comunione di amorosi sensi con ogni tipo di diversità, anzi rivendico la diversità con fierezza. Solo gli sciocchi, gli ignoranti, i bigotti possono opporsi ai diritti umani, che siano di tipo razziale, sessuale, sociale.  Io sostengo i diritti civili, tutti e per tutti. In quale modo l’amore di due persone dello stesso sesso può minare la mia famiglia, il mio orticello, il mio status di “normale” eterosessuale? Come diavolo si può anche solo pensare che questo danneggi la famiglia tradizionale? Ho letto vergognosi slogan dei cattotalebani che proclamavano ‘in difesa dei nostri figli’. Ossia se due gay si sposano minacciano la serenità della vostra prole? E qui mi tocca citare la sagace ironia del comedian americano Louis C.K, finito nel tritacarne del Maccartismo Sessuale del #MeToo, ma non per questo meno ironico e intelligente:

Non ho mai capito le persone che giudicano le altre per come fanno sesso me fanno sesso. Alcuni si arrabbiano con gli omosessuali solo perché sono gay. Non l’ho mai capito. Solo perché fanno sesso tra loro. Li capirei se i gay corressero per strada a inculare estranei senza permesso. Senza chiedere. Siete al bancomat e “Ehi! Ma che cazzo? Cristo! Un finocchio mi ha appena inculato! Mi ha rovinato i pantaloni nuovi! Oddio, un altro! Basta, me ne vado a casa!”. Ma di norma non lo fanno, quindi non vedo dove sia il problema. La gente si arrabbia: “Non potete sposarvi!”. Non devi mica andare al matrimonio? O comprargli un regalo? Non vi riguarda. Un altro dice: “Poi un uomo sposerà il suo cane!”. Bene, spero che succhi il cazzo al suo cane! Chissenefrega? Che importanza ha? Non ha nessun effetto sulla tua vita, quindi che cazzo te ne frega? C’è anche chi pensa che sia un problema sociale, come quelli che dicono la loro nei talk show: “Come dovrei spiegare a mio figlio… che due uomini si sposano?”. Non lo so. È il tuo bambino di merda, spiegaglielo tu. Perché dev’essere un problema di qualcun altro? Due uomini si amano, ma non possono sposarsi perché tu non vuoi parlare cinque minuti con quel cesso di tuo figlio? Chi se ne fotte del tuo figlio di merda, probabilmente verrà su frocio comunque.

 

Louis C.K. – Shameless (2007)

Io fatico davvero a comprendere le ragioni di questo bieco, anacronistico e inquietante odio/rigetto del diverso. Sarà perché, per me, non solo ciò che è diverso, ciò che non conosco, l’ignoto, non mi spaventa, anzi direi più il contrario: mi attrae, nutrendomi. E’ la curiosità il motore che mi spinge sempre avanti e oltre. Indagare ogni aspetto di questo mondo e di questa vita. Che è fugace, incerta, mortale. Non voglio rintanarmi in una cuccia, in una campana di vetro, sicura e tranquilla di ciò che conosco. Io amo avventurarmi là fuori, tornandomene poi, sazia di novità, nella mia tana. Bisogna lasciarla e aprirsi allo sconosciuto, desiderare, imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, accettare le differenze come stimoli al nostro intelletto e non minacce al nostro status. Solo chi è insicuro della propria natura può temere l’altro da sé. Chi si conosce, chi si rispetta, chi segue il proprio cammino e abbraccia la propria natura, per quanto diversa e bizzarra rispetto al giudizio mainstream, può vivere una vita, se non serena in ogni suo aspetto, quantomeno autentica. Talvolta esaltante, altre estenuante. Perché nel mio modo di essere e di vivere, la vita, la libertà e il rispetto altrui sono la mia linfa vitale. Ancora oggi rimango stupefatta che non la pensino così tutti. Che male può fare il diverso da noi? Ed è precisamente nella paura e nell’ignoranza che covano il male e la violenza.

Non starò a sciorinare dati sulle violenze domestiche (nelle famiglie tradizionali) e sulle migliaia di vere deviazioni che affliggono i rapporti tra persone ‘normali’, per non parlare delle devianze pedofile del clero. E’ la solita vecchia solfa della doppiezza morale – Vizi privati, pubbliche virtù, detto al quale io oppongo con orgoglio Vizi pubblici, private virtù – fondata sull’opportunismo, sul bigottismo e sull’ipocrisia, propria dell’itagliano medio e fomentata dal Vatic-ANO e dai vergognosi interventi dei vari ducetti votati alla politica.

L’ultima volta che visitai New York, pre-Covid, fu nel 2019, nell’anno dell’orgoglio, “the year of the pride.” In città c’erano diverse mostre dedicate all’importante anniversario e io non me ne persi una. Uno dei miei primi lavori fu a Gay.TV. Partecipai negli anni a numerose manifestazioni a sostegno dei diritti della comunità LGBTQIA+, tra cui i Kiss To Pacs a Roma e SvegliaItalia a sostegno del DDL Cirinnà a Milano. La mia tribù arcobaleno rappresenta la mia famiglia d’elezione. Perché, lettori cari, il vero cancro dell’umanità, oltre all’umanità stessa e stesa, è la solitudine …

La solitudine è collettiva; è una città. E non ci sono regole su come abitarci, e non bisogna provare vergogna, basta ricordarsi che la ricerca della felicità individuale non travalica e non ci esime dai nostri obblighi reciproci. Siamo tutti sulla stessa barca, e accumuliamo cicatrici in questo mondo di oggetti, questo paradiso materiale e temporaneo che troppo spesso assume il volto dell’inferno.

 

Da Città Sola di Olivia Laing

Ora andiamo e danziamo l’amore gaio in questo mese di meritato e riscattato orgoglio per ogni diversità e libertà di amare e di essere amati nel convulso e confuso, quando non mortale e spettrale, Nuovo Mondo.

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