L’amore al tempo dei romani: quando l’omosessualità non era un peccato  

Omosessualità

Abbiamo già affrontato il modo in cui veniva vissuta, rispetto ad oggi, l’omosessualità dagli antichi greci. Ora, tocca ai nostri antenati dal passato vistoso, vincente, virile: gli antichi romani.

Per i romani, la virilità era il valore più alto a cui far fede. Tutti i civis romanus, sin da bambini, venivano cresciuti, educati e forgiati da una certezza inscalfibile: si era nati per dominare. Un’etica, quella romana, basata sulla sopraffazione. È lecito credere, per questo, che l’omosessualità fosse vissuta dai romani come un atteggiamento poco virile?

Ebbene, no. Essere bisessuali, nella Caput mundi, era normale. Esattamente come nel pensiero greco, ciò che portava vergogna, ciò che rendeva mollis, era la passività. Ancora una volta, la distinzione non si rifaceva sulla bipartizione tra omosessualità-eterosessualità, ma su attività-passività.

La virilità era un principio che andava dimostrato in qualsiasi ambito, senza possibilità di sottomissione. Imporsi nell’ambito politico, attraverso la parola. Dominare le guerre, con la forza delle armi. Spiccare nella sfera morale, grazie alla superiorità delle leggi.

Per essere considerati romani, fondamentale era la forza che si mostrava nell’imporre la propria volontà, il proprio pensiero, la propria tenacia. Un atteggiamento duro, che si ripercuoteva anche nella sfera sessuale, ricoprendo un ruolo attivo.

L’età arcaica: amori leciti e amori (teoricamente) proibiti

La pederastia, dai romani, verrà definita come un “vizio greco”. E sarà facile intuire il perché.

Al contrario dell’atteggiamento di sopraffazione, richiesto dall’etica romana, la pederastia greca richiedeva il corteggiamento. Non ci si prendeva l’amore con la forza, ma con l’attesa.

Inizialmente per i romani esporre i propri sentimenti era sinonimo di mancata virilità. Corteggiare, struggersi per amore, aspettare, incassare il rifiuto, come poteva accadere nel rapporto pederastico, erano elementi anomali per il maschio romano. La sua sessualità si esprimeva senza limiti, ma con un tono netto, privo di incertezze. Libero di godersi gli oggetti del suo desiderio, poteva possedere, senza differenza, sia uomini che donne. Già prima del contatto con la cultura greca, la cultura romana permetteva l’amore omosessuale. Tuttavia, una differenza importante risiedeva nell’impossibilità, da parte dei cittadini romani, di amare i ragazzi liberi.

A Roma, ad essere oggetto di desideri, oltre le donne, erano i giovani schiavi. Il paterfamilias romano godeva di un potere illimitato, che gli permetteva di essere padrone di tutto ciò che gli apparteneva. Tra i suoi beni, vi erano anche gli schiavi. Questi ultimi potevano essere oggetto di autentici rapporti sessuali, durante i quali a riprova del potere sociale, personale e virile del padrone, venivano sodomizzati.

I romani potevano liberamente intrattenere amori omosessuali, senza ombra di riprovazione. Ad essere riprovata era la passività. Un ruolo che non corrispondeva affatto al modello di austerità e rigore che Roma esaltava. Un tipo di atteggiamento che, assieme all’attrazione nei confronti dei futuri cittadini romani, sarà ben presto oggetto di attenzione.

L’età repubblicana: tra controlli e inibizioni

Durante l’età repubblicana, probabilmente intorno al 225 A.C., le fonti inizieranno a parlare di una legge inedita, volta a regolamentare il comportamento sessuale dei romani: la Lex scatinia.

La lex scatinia, probabilmente, fu caratterizzata da due deposizioni rivolte specificatamente ad alcuni dei rapporti omosessuali presenti nella città. Innanzitutto, le possibili relazioni con i pueri. Come già anticipato, i giovani romani non potevano essere oggetto di desiderio. Qualora questo fosse accaduto, la lex scatinia avrebbe presumibilmente punito l’adulto che si fosse avvicinato al giovane. Nel caso del rapporto fra due adulti romani, invece, la legge avrebbe punito esclusivamente il maschio romano passivo. Ma la lex scatinia non impaurì i romani. I ragazzi continuarono ad essere, sempre più, oggetto di desiderio. Per questo, occorreva attendere una nuova mossa, volta a difendere l’integrità dei futuri, virili, maschi romani. Un’azione presa in carico da un pretore romano, circa trent’anni dopo la lex scatinia.

Un pretore, il cui nome non ci è giunto, stabilì una sanzione – anch’essa ignota – a carico di chi, per strada, disturbasse non solo le donne per bene, ma anche i praetextati, i giovani che indossavano, appunto, la tunica praetexta. Una tunica bianca, bordata di porpora, diversa dalla tunica a tinta unita indossata dai cittadini. L’ennesimo tentativo destinato a fallire: i giovani romani divennero non solo oggetto di desiderio, ma d’amore.

Nel corso del II secolo A.C., i ragazzi liberi inizieranno ad essere corteggiati molto più apertamente. Ai romani iniziò a non bastare più il solo soddisfacimento sessuale, piuttosto si aspirava alla seduzione d’amore. Una situazione nuova, che il diritto non approvava e le autorità tentarono di stroncare, ma invano. A contribuire, fu sicuramente la progressiva – e inevitabile – ellenizzazione della cultura romana. Così, esattamente com’era accaduto in Grecia, anche a Roma l’amore per i pueri divenne motivo letterario.

L’omosessualità nella poesia romana: Catullo

Sebbene di Catullo si conosca soprattutto il celebre amore verso Lesbia, esso non fu l’unico ad animare la vita del poeta. Tra gli amori sofferti di Catullo, vi fu anche l’amore verso un ragazzo, Giuvenzio.

In Catullo si incroceranno due modelli culturali diversi: quello romano e quello greco. Indiscutibilmente, la sessualità espressa da Catullo era profondamente diversa rispetto a quella permessa durante l’età arcaica. Se da un lato in Catullo fu saldamente presente l’antico modello dello stupratore, capace di sottomettere e umiliare altri maschi, dall’altro egli assumerà un atteggiamento incline a dispensare baci, dolcezze e carezze. Con l’amato, esattamente come accadeva in Grecia, nonostante l’assenza di una funzione pedagogica interna alla relazione, si intraprendeva una storia d’amore. Un rapporto destinato comunque a finire, a seguito della celebrazione del matrimonio.

Pur teoricamente inammissibile, questo tipo di relazione omosessuale si diffonderà sempre più a Roma. Amori appassionati e romantici, ampiamente raccontati anche dai poeti elegiaci. In genere, il sentimento d’amore – inteso come passione romantica – a Roma verrà vissuto al di fuori del matrimonio, sia con donne, che con ragazzi liberi.

Catullo, emotivamente e sessualmente, era apertamente bisessuale. Per il poeta, sia gli uomini – come Giuvenzio – che le donne – come Lesbia – furono oggetto d’amore. Un unico elemento, anche in Catullo, rimarrà inalterato: nel rapporto omosessuale, egli ricopriva un ruolo attivo. In lui, l’antica regola della virilità, già presente nella Roma arcaica, sarà ancora fortemente sentita. Ciò che di nuovo testimonia Catullo, riguardo all’amore omosessuale, sarà evidente nell’atteggiamento psicologico, più che sessuale. La passione si mostrerà con mentalità romantica, sentita, lontana dalla semplice fisicità, indirizzata non verso semplici schiavi, ma verso ragazzi liberi, futuri civis romanus, teoricamente intoccabili.

Sicuramente, l’atteggiamento già presente in Catullo continuerà ad essere cantato dai poeti, come nel caso di Albio Tibullo.

L’omosessualità nella poesia romana: Tibullo

Di una generazione successiva a quella di Catullo, Tibullo nacque probabilmente nel 54 A.C.

Bello e di agiata famiglia, come lo descriverà Orazio, fu facile preda di amori tormentati. Famoso sarà l’amore cantato per Delia, ma ugualmente sentito fu l’amore verso Marato.

Le elegie per Marato, inevitabilmente, testimonieranno come per Tibullo gli amori verso i ragazzi fossero continua causa di passione e tormento. Marato face soffrire terribilmente Tibullo, tradendolo, amando altri, tra cui donne; anche a Roma, infatti, i pueri amavano essere corteggiati, desiderati, contesi. Un comportamento che portava gli amanti ad assecondarli, a dimostrar loro la propria dedizione, giurando, corteggiando, promettendo.

A Roma si ricalcarono i passi greci. Amare un ragazzo libero, al contrario di ciò che si predicava, divenne parte dell’esperienza sentimentale dei romani.

Il caso di Giulio Cesare

Come già anticipato, nel corso del I secolo A.C., Roma sarà luogo di cambiamenti. Non solo si registreranno nuove relazioni con ragazzi liberi, lontane dalla sola fisicità con gli schiavi, ma nuovo sarà anche l’atteggiamento verso chi, nel rapporto omosessuale, assumeva un ruolo passivo.

Vi era chi, infatti, pur essendo sessualmente passivo ricopriva importanti posizioni all’interno della società, in ambito sia politico che militare. Condottieri, capipopolo, uomini la cui virilità non veniva messa in discussione, sebbene sessualmente si comportassero – così si era soliti dire – come delle donne. L’atteggiamento espresso nei loro confronti, insieme al giudizio popolare, non li scalfiva, risultando ambiguo, diverso dalla norma comune. Seppur da un lato venissero ridicolizzati, dall’altro venivano ammirati, stimati e amati.

Tra le file di questi personaggi, ve ne saranno di celebri. Uno di questi sarà proprio Giulio Cesare, celeberrimo, nell’antichità, per essere stato l’amante di Nicomede, re di Bitinia. La sua avventura con Nicomede, infatti, a Roma era notissima. Per questo, il grande Cesare veniva pubblicamente irriso. Secondo la testimonianza di Dione Cassio, Cesare ben sopportava, senza particolari problemi, il linguaggio scurrile adottato dai suoi soldati e anche Svetonio riferirà che, il grande comandante romano, non si preoccupava affatto delle battute sulla sua vita sessuale. Infondo, al di là di qualunque voce, egli era altamente rispettato a Roma e non sarà difficile immaginare il perché.




Innanzitutto, famosa era la fama di adultero di Cesare. Il grande comandante romano non era stato solo l’amante di Nicomede, ma un grande amatore di donne. Un’immagine, quella di Cesare, inconsueta: virile con le donne, virile con gli uomini, ma virile anche se sottomesso.

Impossibile, poi, non tener conto delle sue importanti imprese belliche. La sua fama di soldato era un elemento importantissimo: la virilità, a Roma, si esprimeva anche con la superiorità bellica. La tempra mostrata da Cesare era inscalfibile. Una grandezza che non poteva essere ignorata, anche se macchiata di passività.

Il caso di Augusto

Sicuramente, con Giulio Cesare inizierà la parata dei conquistatori, degli uomini di potere, dei dominatori. Tra questi, Augusto: nipote di Cesare, suo figlio adottivo e suo successore.

Esattamente come il suo predecessore, anche Augusto avrà una vita sessualmente inaspettata. Pompeo, ad esempio, lo derideva, accusandolo di essere effeminato. E di certo non fu l’unico. La presunta passività del Principe era nota anche ai soldati, come testimoniano le iscrizioni sui proiettili delle fionde usate dai soldati romani durante l’assedio di Perugia, tra il 41 e 40 A.C. Difatti, un’usanza romana era quella di utilizzare i proiettili non solo per uccidere i propri nemici, ma anche per insultarli.

All’epoca dei fatti, Ottaviano, futuro Augusto, aveva ventidue anni e combatteva contro Marcantonio; a seconda della fazione di cui si faceva parte, sui proiettili venivano incisi degli insulti – in genere di tipo sessuale – indirizzati al comandante avversario. In quell’occasione, gli insulti rivolti ad Ottaviano, non lasceranno spazio a fraintendimenti: Ottaviano verrà chiamato con spregio al femminile – Ottavia – oltre ad essere accusato di fellatio, la massima umiliazione per un virile maschio romano. Tuttavia, nonostante la consolidata fama di mollis, esattamente come nel caso di Cesare, anche Augusto sarà una delle personalità più importanti di Roma.

In seguito, superati gli anni della giovinezza, Augusto consoliderà la propria fama di adultero. Al pari della grandezza politica, il primo imperatore romano sarà un grande conquistatore di donne. La sua vita sarà costellata di matrimoni e avventure extraconiugali, oltre all’efficace strategia promozionale che egli stesso metterà in atto attraverso un poemetto scritto di sua mano, il quale racchiuderà, volutamente, elementi di sfacciata virilità.

A seguire Augusto, numerosi saranno gli imperatori i cui comportamenti sessuali si allontaneranno sempre più dall’antica morale romana: Tiberio, Caligola, Nerone, Tito, Domiziano, Adriano, Costantino. Solo Claudio, tra i primi quindici imperatori, intretterrà rapporti esclusivamente eterosessuali.

L’inizio della repressione

A dispetto di quanto comunemente si crede, non fu il cristianesimo a dare inizio a una lenta, ma costante, repressione dell’omosessualità. Anche all’interno del paganesimo si registreranno cambiamenti importanti, capaci di rendere assai fertile il terreno su cui attecchirà la morale cristiana.

A dare inizio a precisi cambiamenti saranno Costanzo e Costante.

Nel 342 A.C., Costanzo e Costante, attraverso l’introduzione di una nuova costituzione, si occuperanno degli omosessuali passivi. La costituzione, infatti, prevedeva come punizione verso la passività, non la pena della decapitazione, ma la vivicombustione.

In seguito, questo supplizio verrà nuovamente confermato. Il 6 agosto 390 Valentiniano, Arcadio e Teodosio, confermeranno la morte tra le fiamme. Attenzione, però: ad essere condannata non sarà qualunque forma di passività. Ciò che si cercò di frenare, sin dalla costituzione di Costanzo e Costabile, era il dilagare della prostituzione. Ad essere condannati al rogo, infatti, erano solo gli uomini omosessuali passivi che si prostituivano nei bordelli. Una forma di passività ritenuta, ormai, intollerabile.

Tuttavia, progressivamente e inesorabilmente, i casi di omosessualità puniti con la pena capitale si moltiplicheranno.

Nel 438, la costituzione di Teodosio il Grande venne inserita, da Teodosio II, nel Codice Teodosiano, opportunamente modificata. Difatti, il riferimento ai prostituti venne deliberatamente cancellato, cosicché si potesse ottenere una repressione dell’omosessualità di gran lunga più estesa. Da quel momento, si stabilì una nuova regola: sarebbero stati condannati alle fiamme tutti gli omosessuali passivi.

Giustiniano e l’omosessualità come il motore dell’ira divina

Fino a tutto il V secolo, la politica imperiale nei confronti dell’omosessualità aveva rispettato gli antichi principi dell’etica sessuale romana: ad essere condannati erano stati solo gli omosessuali passivi. Un elemento che, tuttavia, cambierà con l’avvento di Giustiniano.

Pubblicate nel 533, le Istituzioni introdurranno una nuova disposizione, del tutto in contrasto con la tradizione romana: ad essere condannati dovevano essere anche gli omosessuali attivi. Con Giustiniano, l’omosessualità non recava solo offesa a Dio, ma portava pericoli. A causa di questa, motore dell’ira divina, si potevano verificare vere e proprie catastrofi: terremoti, pestilenze, carestie. Era necessario, dunque, estirparla.

Il diritto, con Giustiniano, divenne uno strumento nelle mani della Chiesa, fermamente decisa a far rispettare la volontà del Signore. L’intero rapporto omosessuale, a prescindere dal ruolo che si ricopriva, fu vietato. Stando alle fonti letterarie, la pena scelta per l’omosessualità, da parte di Giustiniano, fu la castrazione, almeno in un primo momento. Una pena per niente anomala, all’interno dell’impero: le mutilazioni fisiche erano già da tempo in uso. Sarà in seguito, con l’estensione della pena a chi ricopriva un ruolo attivo, che Giustiniano istituirà la pena di morte, sebbene – a noi oggi – non è giunto sapere in che forma.

Omosessualità femminile: il ruolo delle donne

A differenza di quello che accadde per la Grecia, attraverso la testimonianza di Saffo, a Roma tutto quello che riguarderà l’omosessualità femminile verrà filtrato dallo sguardo e dalle parole degli uomini.

A Roma, l’amore fra donne fu valutato in modo profondamente diverso rispetto alla virile bisessualità maschile. Esattamente come per i greci, anche per i romani la donna era, per sua natura, un essere pericoloso.

Incapace di controllarsi, doveva essere costantemente controllata. A differenza dei greci, però, Roma non segregava in casa le donne, estraniandole completamente dalla loro vita sociale, ma permetteva loro l’accesso alla cultura, non certo a caso.

Alle donne romane, infatti, spettava un compito fondamentale: crescere ed educare i futuri cittadini romani. Un compito che non avrebbero potuto esaudire se poste in una condizione di inferiorità. Anche le donne, esattamente come gli uomini, dovevano coltivare un sentimento d’orgoglio e fierezza per essere romane. Le donne, a Roma, fungevano da veri e propri strumenti: ai propri figli avevano il compito di trasmettere il valore dei padri, infondendo e propagandando una cultura intrinsecamente patriarcale.

Le tribadi: creature contro natura

Se non erano donne virtuose, inevitabilmente, le donne diventavano creature incontrollabili, sfrenate, infedeli, incostanti e omosessuali.

L’omosessualità femminile, non a caso, al contrario della considerazione di cui godeva quella maschile, veniva inserita fra gli atteggiamenti contro natura. Una considerazione evidente anche nelle Metamorfosi di Ovidio, con la storia di Iphis, una fanciulla nata nell’isola di Creta. Inoltre, l’amore fra donne, per i romani, non si limitava ad essere contro natura, ma rappresentava un crimine: una donna sposata che intraprendeva una relazione omosessuale commetteva, senza ombra di dubbio, adulterio.

Anche nell’ambito medico il giudizio rimarrà invariato. Celio Aureliano, infatti, sentenzierà che le tribadi, esattamente come i molles, rientravano nella categoria dei malati di mente. Nell’immaginario romano, l’omosessualità femminile altro non era che il tentativo malato di una donna di sostituirsi ad un uomo, mentre un’altra ricavava da quell’innaturale rapporto omosessuale, un piacere che solo gli uomini potevano dispensare. L’amore fra donne, dunque, appariva come una grottesca parodia dell’atto di sottomissione.

Ciò che rendeva odiose le tribadi, ai romani, era il loro assoluto disinteresse. La colpa che le rendeva imperdonabili era anomala, contro natura, criminale: poter fare a meno degli uomini.

Conclusioni

È chiaro come il contesto influenzi fortemente lo sviluppo di ciò che verrà ritenuto naturale e contro natura. Oggi, le credenze e i valori del passato appaiono lontani, sebbene si cerchi di propagandare le conquiste di un passato vistoso, che nessuno può strappar via. Ebbene, è altresì evidente come l’omosessualità fosse parte integrante della società romana – così come lo era stata in quella greca – caratterizzata da regole e principi profondamente diversi rispetto a quelli assunti con l’avvento del cristianesimo. Il cristianesimo ha influenzato molto il pensiero occidentale. Indubbiamente, molte delle sfaccettature legate alla sessualità, a cosa possa definirsi naturale o meno, derivano da radici cristiane.

Che la predicazione cristiana, sin dai suoi inizi, abbia condannato ogni forma di omosessualità, è un fatto che difficilmente può essere contestato. Le fonti, infatti, lo mettono ben in evidenza.

Pur non essendo molto frequenti, i riferimenti all’omosessualità nel Nuovo Testamento risultano chiarissimi. Paolo, nella I lettera ai Romani, condannerà ogni forma di omosessualità. Una novità non da poco, che causerà l’introduzione di un’etica sessuale diversa: a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, non sarà non più la dicotomia attività e passività, ma l’opposizione tra eterosessualità e omosessualità. Per Paolo, l’omosessualità sarà chiara espressione di anormalità, mentre l’eterosessualità verrà definita indiscutibilmente naturale.

Anche all’interno dell’Antico Testamento la condanna all’omosessualità apparirà difficilmente contestabile. Nella celebre storia dei Sodomiti, ad esempio, il Signore distruggerà l’intera città, seppellendola sotto una pioggia di fuoco e zolfo, proprio a causa dell’assoluta dissolutezza – anche sessuale – degli abitanti, non curanti, ormai, dei precetti divini.

Sicuramente, i precetti cristiani hanno cambiato enormemente il modo di vedere l’omosessualità. Principi che ancora oggi ostacolano l’idea che, a rientrare nella naturalità delle cose, ci sia anche l’omosessualità.

Angela Piccolomo

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