L’eredità degli antichi è un patrimonio su cui tutti, bene o male, vogliono mettere le mani. Accaparrarsi la prima idea, le prime conquiste, il sapere di civiltà nobili e avanzate, capaci di dar lustro a un passato leggendario e nostalgico. Celebrare riti antichi, appropriarsi di tradizioni perdute, studiare saperi, lingue e leggi è un atteggiamento comune a molti luoghi e popoli. L’Italia, non fa eccezione.
Luogo di un passato maestoso, spesso ingombrante, riconosce l’eccezionalità delle proprie origini. Recupera diritti, rimedi, opere, storie, vittorie selezionando i traguardi più convenienti da gridare e diffondere, tralasciando, invece, ciò che reputa sconveniente. L’omosessualità è parte di ciò che possiamo considerare scomodo, nel nostro passato.
Sebbene l’Italia abbia riconosciuto, a partire dal 2016, le unioni civili per le coppie omosessuali, con le convenzionali polemiche nate dalla messa in discussione di cosa possa definirsi amore o famiglia, la resistenza nei confronti dell’omosessualità è ancora profondamente radicata nel Paese. A incidere, sicuramente, è anche la presenza del Vaticano, uno Stato a sé che continua a condizionare fortemente l’immagine della famiglia, la visione della sessualità e la costruzione dell’etica.
Basti pensare alla mancata opportunità data al DDL ZAN, attorno al quale si sono radunate ragioni contrastanti, diritti mancati e sceneggiate in parlamento. Insomma, la strada è tutta in salita. Eppure, nel passato che tanto si decanta, l’omosessualità era tutto fuorché un peccato. Con l’arrivo del cristianesimo, molti aspetti sono cambiati: la sessualità, gli impulsi, sono stati messi a zittire, seppellendoli in un silenzio malevolo, surrogati come qualcosa di sporco e lascivo, da tenere al guinzaglio. E gli antichi?
Sia i greci che i romani vivevano la sessualità e l’etica ad essa legata in modo radicalmente diverso rispetto a noi oggi. Tra le prime ragioni troviamo il paganesimo: sia i greci che i romani erano pagani, mentre molti dei concetti oggi legati alla sessualità provengono dal cristianesimo.
Un altro aspetto fondamentale riguarda la distinzione, oggi preponderante, tra omosessualità ed eterosessualità. Nell’antichità, infatti, questa bipartizione non esisteva. Determinante era il ruolo che si ricopriva all’interno del rapporto, attraverso la distinzione tra attivo e passivo. L’uomo antico, per mostrarsi virile, doveva essere attivo in ogni campo, dalla guerra, alla politica, sino al sesso.
Omero: il caso di Achille e Patroclo
Si sa, i poemi omerici sono ricchi di miti, sentimenti e personaggi immortali. Legami – anche maschili – che suggeriscono la nascita di sentimenti ancor più forti e intensi rispetto alla sola amicizia o alla solidarietà fra compagni d’arme. Un esempio – che poco spazio lascia ai dubbi – è presente nell’Iliade: il rapporto tra Achille e Patroclo.
Dopo la morte di Patroclo, infatti, Achille si consumerà dal dolore. Un dolore autentico, inaccessibile, che lo isolerà da ogni dovere. Il suo unico desiderio, dopo aver vendicato l’amico, rimarrà quello di giacere con lui nella stessa fossa, per sempre, in modo da unirsi a lui nella morte così come lo era stato in vita.
In genere, gli eroi omerici esprimono il proprio dolore gemendo e coprendosi il capo di terra, ma in Achille – oltre a questi – si leggeranno comportamenti anomali, bizzarri, disperati. Ad esempio, all’inizio del XIX canto, Teti troverà Achille disteso su Patroclo, abbracciato ostinatamente al suo cadavere. Un tipo di comportamento inusuale anche all’interno del quadro delle manifestazioni omeriche del lutto, espressione violenta di una perdita profonda, insostituibile.
Un ulteriore suggerimento, riguardo al carattere sentimentale del rapporto tra Patroclo e Achille, arriverà dalle parole di Teti. Per la dea, il figlio dovrebbe necessariamente andare avanti, continuare a vivere, dimenticare l’amico e prendere – finalmente – moglie. Ciò che emerge dalle parole di Teti è un ulteriore conferma della natura amorosa del rapporto tra il figlio e Patroclo: a causa di quest’ultimo, Achille non aveva ancora compiuto uno dei suoi doveri sociali, quello di prendere moglie. Difatti, per i greci era naturale, dopo aver raggiunto la giusta età, prendere moglie e diventare marito, assumendo il ruolo attivo che imponeva la virilità, ponendo così fine alla propria fase omosessuale. Insomma, risulta difficile rimanere ciechi e non riconoscere, in tutto questo, una storia d’amore celata abilmente tra le righe e le parole di Omero.
L’omosessualità nell’età classica: cos’era la pederastia?
Ad Atene, il rapporto uomo-donna non si posizionava al centro dell’organizzazione sociale, nonostante l’importanza che gli veniva riconosciuto per la sua funzione riproduttiva. Ad occupare un ruolo di spicco era il rapporto omosessuale, determinante per la formazione del futuro cittadino. Il ragazzo, l’amato – eròmenos – e l’adulto, l’amante – erastès – davano vita alla pederastia greca.
L’amato, nel rapporto pederastico, aveva poco tempo per godersi il corteggiamento e l’amore. Ad essere considerati eròmenos erano solo i giovani fra i dodici e i diciassette anni. Superati quegli anni, con l’apparizione dei primi peli – sul viso, sulle cosce, sul collo – i ragazzi cessavano di essere appetibili, sebbene in alcuni casi – del tutto eccezionali – il rapporto poteva protrarsi anche oltre.
Tempi, limiti e controindicazioni della pederastia greca
Convenzionalmente, a regolare il rapporto pederastico era un periodo di tempo delimitato. Raggiunta la maggiore età, il ragazzo doveva abbandonare il ruolo passivo e assumere un ruolo duplicemente attivo, sia nel rapporto eterosessuale con la propria moglie, sia nel rapporto omosessuale con un pais. A determinare uno stato di vergogna non era la propria omosessualità, ma la perseveranza nel voler mantenere un ruolo passivo: essere passivi non si addiceva al virile maschio greco adulto. In una coppia omosessuale di adulti greci, non esisteva un’intercambiabilità di ruoli. Ricalcando il modello della coppia pederastica, uno solo degli uomini – definito katapygо̄n – assumeva il ruolo passivo, condannandosi a una serie di epiteti: si era viziosi, indegni e ridicoli.
Gli uomini greci potevano intrattenere rapporti pederastici per tutta la vita. Se, infatti, l’età per essere amati aveva due limiti rigorosi – quello minimo dei dodici anni e quello massimo dei diciassette anni – l’età per amare aveva un solo limite: il raggiungimento dell’età adulta.
Sicuramente, una considerazione importante da fare riguarda il limite minimo di età dell’amato, quello dei dodici anni – che ad oggi, in noi – può suscitare non poche perplessità. Innanzitutto, i dodici anni per i greci erano un’età meno infantile rispetto alla concezione che se ne ha oggi, non solo per i ragazzi, ma anche per le ragazze. Comunemente le ragazze greche si sposavano tra i dodici e i tredici anni, l’età in cui si raggiungeva la pubertà. Inoltre, il diritto ateniese prevedeva punizioni per chiunque avesse esercitato violenza su uomini, donne o ragazzi. D’altra parte, ciò non significa che col passare del tempo la pederastia non verrà mai messa in discussione: in concomitanza con la guerra del Peloponneso, la morale cittadina ateniese cambierà, come riferirà lo stesso Tucidide. Molti ateniesi inizieranno a considerare la pederastia non più come un importante strumento sociale e culturale, ma come un vizio.
Sempre più frequentemente, i rapporti pederastici si protraevano oltre i limiti stabiliti e la guerra del Peloponneso, che decimò la gioventù di Atene, portò al disperato bisogno di nuovi matrimoni e figli che, naturalmente, il rapporto omosessuale non poteva offrire.
L’omosessualità nel pensiero filosofico: Socrate
I filosofi greci, in più occasioni, cercheranno di definire e individuare le differenze tra l’amore omosessuale e quello eterosessuale, tentando di stabilire quale fra i due fosse, fondamentalmente, superiore all’altro.
Il primo teorico dell’amore – erо̄s – fu Socrate, la cui aspirazione fu quella di stabilire con i ragazzi dei rapporti esclusivamente spirituali. Ciò risulta non solo dalle testimonianze del suo allievo, Platone, ma anche da altri testimoni, come Senofonte. Per Socrate la continenza sessuale era indispensabile per poter aspirare al dominio della mente sul corpo, ma ciò non implicava l’assenza dell’amore verso i pais. Ad essere rifiutati dal filosofo erano esclusivamente gli amori puramente carnali.
Platone
Per comprendere il pensiero di Platone, invece, un primo indizio ci viene fornito dalla distinzione che egli farà fra due tipi d’amore. L’amore ispirato da Afrodite Urania portava verso i ragazzi, mentre chi era ispirato da Afrodite Volgare amava indifferentemente sia uomini che donne. Platone, non sorprendentemente, sosterrà fermamente la superiorità dell’amore fra uomini. Una convinzione che emerge in maniera preponderante nel celebre mito sull’origine dei sessi, narrato da Aristofane nel Simposio.
Nel mito si racconterà che in origine i sessi erano tre. Vi erano gli uomini che avevano due sessi maschili, le donne che avevano due sessi femminili e gli androgini dotati di entrambi i sessi. La forma dell’essere umano era profondamente diversa: schiena e fianchi a cerchio, quattro braccia, quattro gambe, quattro orecchie, due sessi e una sola testa. Erano felici, ma arroganti. Per questo, Zeus decise di punirli: li divise a metà, condannandoli alla ricerca eterna di quella che era stata la propria metà.
Aristofane nel suo racconto non avrà esitazioni. Chiarirà subito che tra i tre sessi gli uomini che amano gli altri uomini sono migliori, poiché discendono da un essere totalmente virile e amano ciò che è loro simile. Attenzione, però: questo vale solo per i maschi. Le donne che amavano altre donne – le tribadi – erano considerate dai greci donne pericolose, selvagge, difficili da tenere sotto controllo e di cui la storia ha restituito poche tracce.
In Platone, interessante sarà anche la contrapposizione fra ciò che definirà secondo natura – kata physin – e ciò che, invece, verrà definito contro natura – para physin – nel primo libro delle Leggi. Platone definirà secondo natura i rapporti uomo-donna, mentre chiamerà contro natura i rapporti omosessuali. Ma non è ciò che sembra. Per Platone, contro natura era qualunque rapporto non fosse destinato alla procreazione, anche eterosessuale.
Aristotele
Un atteggiamento di condanna verso l’omosessualità, lo si troverà nella Politica di Aristotele. Proprio perché non utile alla procreazione, l’omosessualità verrà additata come inutile. Non è, tuttavia, una condanna morale. Il giudizio del filosofo dipenderà fortemente dal contesto in cui l’omosessualità verrà praticata. Ad esempio, se in una città vi fosse stato un problema di sovrappopolazione, l’omosessualità avrebbe avuto una forte valenza sociale e non sarebbe stata in alcun caso condannata e additata come inutile.
Omosessualità femminile: il caso di Saffo
Tutto quello che si conosce sull’omosessualità femminile nell’antica Grecia, lo si deve a Saffo.
Nata a Mitilene – nell’isola di Lesbo – attorno al 612 A.C., fu a capo di una delle particolari associazioni di giovani donne chiamate thiasoi. Difatti, seppur l’amore fra donne fu, almeno in gran parte, invisibile all’interno della cultura greca, tra il VII e VI secolo A.C., riuscì a conquistarsi un proprio spazio.
I thiasoi furono comunità di donne la cui esistenza sarà documentata, oltre che a Lesbo, anche in altre zone della Grecia, in particolar modo a Sparta.
Dotati di divinità e cerimonie proprie, accoglievano le ragazze prima che si sposassero, cosicché potessero vivere un’esperienza di vita concreta e il più completa possibile. Ma non è tutto: all’interno dei thiasoi, le fanciulle ricevevano un’educazione, impartita da una maestra. Di uno di questi thiasoi, Saffo fu la maestra. Una maestra non solo d’intelletto: oltre alla musica, alla danza e al canto, si apprendeva l’arte della bellezza, della grazia, della seduzione. E ci si innamorava. Le donne desideravano altre donne, amavano altre donne con passione, trasporto, emozione. E lo stesso farà Saffo, innamorandosi delle proprie allieve, vivendo amori struggenti destinati fatalmente a finire: il rapporto omosessuale presente nei thiasoi segnava il passaggio dallo stato di verginità a quello di donne sposate. Un rito destinato a scomparire.
Tra il VII e il VI secolo A.C., i thiasoi scomparvero e con essi morì la possibilità offerta alle donne di coltivare il proprio intelletto e di scegliere, anche se per breve tempo, chi amare. Destinate al matrimonio sin da tenera età, allontanate da ogni tipo di educazione, le donne impareranno a conoscere un solo tipo d’amore, l’unico consentito: quello per un marito scelto da altri. Dell’omosessualità femminile nell’antica Grecia, dopo le parole di Saffo, si saprà ben poco.
Conclusioni
È interessante notare come il concetto di normalità sappia mutare forma e carattere, nel corso del tempo. Oggi, si dibatte ancora molto su cosa possa definirsi amore, normalità o famiglia. Nell’antichità, invece, l’omosessualità era riconosciuta socialmente, al pari – e nel caso dei Greci al di sopra – dell’eterosessualità. I preconcetti che possono esserci dietro qualsivoglia argomento, dipendono per gran parte dal contesto in cui si nasce, cresce e da cosa si ascolta sin da bambini. Quel che viene considerato normale, l’educazione che viene impartita per essere considerati tali, nasce e fa radici, imponendo standard che di moralmente giusto non hanno nulla. Se molti passi avanti sono stati fatti – in considerevoli aspetti, rispetto al passato – è importante tener conto anche dei passi indietro. Solo guardando in entrambe le direzioni, sarà possibile attraversare la strada e andare oltre.