L’America non è lontana, dall’altra parte della luna

Ma l’America è lontana dall’altra parte della luna che li guarda e anche se ridea vederla mette quasi paura”. Così cantava Lucia Dalla in una famosa canzone. Così hanno pensato e pensano analisti, commentatori, semplici cittadini, dopo lo sconvolgimento mondiale provocato dal provvedimento con cui il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha bloccato l’ingresso negli Stati Uniti per alcuni mesi ai cittadini, profughi compresi, di sette paesi musulmani.

L’America è lontana, ci dicono. Da noi il capo dell’esecutivo non ha neppure una virgola dei poteri del commander in chief degli Stati Uniti. Da noi c’è un tessuto sociale e culturale fortemente segnato dalla secolare presenza del Cattolicesimo, che mai permetterebbe la costruzione di muri e barriere, espulsioni coatte e pugno duro. Da noi, nononstante tutto, l’individualismo aggressivo statunitense e le pulsioni egoistiche dell’uomo capitalista sono da sempre moderate e smorzate da una qualche forma di solidarietà, un po’ reale, un po’ molto patinata e conformistica. Da questa prospettiva, è vero, l’America di Trump è lontana.

Ma scendiamo dalle stanze del potere, dalle redazioni dei giornali, dai salotti dove parlano a loro stessi sociologi e politologi, al Paese reale, della gente in carne e ossa. Lì dove i fenomeni non possono essere previsti o analizzati a priori, perché hanno a che fare con un’umanità fatta di valori e principi, ma anche di istinti e reazioni. E’ a contatto con questo tipo di società italiana che dobbiamo domandarci: funziona o non funziona questo modello di integrazione che abbiamo imposto? E’ tutto così facile e lineare come è raccontarlo nei pubblici discorsi? E’ così facile fare arrivare a tutti, alla vedova del piccolo borgo dell’Aspromonte o alla casalinga della Val Brembana, il concetto di “fondi vincolati” per la gestione dell’immigrazione fino a smontare la narrazione “per gli immigrati i soldi ci sono, per gli Italiani no”? No non è facile. E’ l’America non è così lontana.

In America vediamo un provvedimento, discutibile sicuramente, firmato nel chiuso dello studio ovale da un’autorità. Nella vita di tutti i giorni vediamo le barricate di Goro e Gorino, il migrante che affonda nel canale di Venezia al grido offensivo di “Africa”, la vicenda di Emmanuel Chidi Namdi. E ancora il consenso popolare verso le forze della destra eversiva e xenofoba, il dilagare sui social di forme di razzismo e intolleranza verbale che raggiungono l’apice di fronte a situazione di crisi come il recente terremoto dell’Italia centrale. E poi in fila alla mensa Caritas migranti e autoctoni, con questi ultimi che insultano i primi, il business delle cooperative che gestiscono i flussi migratori, vere e proprie paludi di denaro costruite sul terreno dell’emergenza, che trasforma vittime di persecuzioni costretti a scappare in occasioni di profitto.

In Italia c’è questa pentola a pressione che bolle. Qui non è in discussione, e mai lo sarà, la dimensione umana e cristiana per cui ogni uomo e ogni donna sono da riconoscere come un fratello e una sorella da accogliere e tutelare. Qui si tratta di scelte che competono alla politica. Scelte fatte o non fatte per convenienze economiche, costruite sulla tragica sorte di milioni di disperati. Scelte fatte e non fatte a tutti i livelli, dalla politica nazionale a quella europea, che attraverso slogan e frasi fatte, fanno finta di non vedere la lacerazione di un intero tessuto sociale ed economico, bombe ad orologeria pronte ad esplodere. E quando queste esploderanno, non avremo di fronte un documento da firmare come l’immagine di Trump che sta circolando da giorni. Non ci saranno documenti da firmare. Ci sarà la furia del popolo che, purtroppo, nell’esasperazione della rabbia, non ragiona e sceglie sempre Barabba.

Se guardiamo a questa Italia, pentola a pressione che ribolle, l’America, quella di Trump, non è così lontana. E noi non vogliamo l’America di Trump. Vogliamo che, in nome di quegli stessi valori umani e cristiani di cui ci si riempie la bocca, si facciano scelte di responsabilità. Riconoscendo che esiste un diritto all’accoglienza che va concretizzato con politiche efficaci, misurabili non da quanti soldi girano ma dal reale livello di integrazione nei territori. E riconoscere che, accanto al diritto all’accoglienza, esiste anche un diritto a non emigrare e ad essere felici sul proprio suolo. Nella terra dei padri.

Salvatore D’Elia

 

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