Attorno al Coronavirus sempre più “lachesismo”: il desiderio di essere protagonisti di una catastrofe

lachesismo

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Il Coronavirus è una cosa seria, che ha causato vittime, contagi, misure di emergenza e quant’altro. Quello che si legge sul web e quello che si respira chiacchierando al bar di città a centinaia di chilometri di distanza dai focolai del virus, è però leggermente diverso dalla giusta preoccupazione per una malattia che non è ancora stata compresa del tutto. 

C’è chi va nel panico più totale. C’è chi ritiene plausibile che qualsiasi tipo di azione quotidiana gli possa essere fatale. C’è lo snob. C’è il fatalista rassegnato. C’è il documentato, l’esperto che ha studiato tutte le statistiche. C’è lo scettico, che si lancia contro il sistema. C’è lo sprovveduto. C’è l’aspirante eroe. Così come c’è il protagonista.




The Dictionary of Obscure Sorrows

Quest’indescrivibile desiderio di protagonismo un nome ce l’ha. Si chiama “lachesismo”: è un neologismo inventato da John Koenig, graphic designer e regista, che ha introdotto alcune parole per descrivere sentimenti che non hanno parole adeguate per essere descritti. Lo ha fatto dal suo canale Youtube, con il Dictionary of Obscure Sorrows. Il lachesismo è il desiderio di essere vittime di disastri, sopravvivere a incidenti aerei, o perdere tutto in un incendio. E potrebbe essere accostato all’incomprensibile protagonismo che si sta creando al Coronavirus.

Il termine deriva dalla mitologia greca. Lachesi è infatti una delle tre Moire (Parche), cioè le divinità che decidevano il destino di tutti. Figlia della Notte, Lachesi era la moira che svolgeva sul fuso il filo della vita, distribuiva la quantità di vita a ogni umano e ne decideva il destino. Il nome trae origine da Λαχε, vocabolo greco per indicare la sorte.




Il lachesismo potrebbe essere uno strano prodotto della società che, con i recenti sviluppi social, ci ha messi tutti su un palcoscenico. Tutti pensiamo di avere qualcosa di interessante da raccontare (altrimenti perché starei qui a scrivere questo articolo, giustamente) e, se non lo abbiamo, lo vogliamo a tutti i costi. E’ per questo motivo che andiamo a vedere il film che hanno visto tutti, compriamo i biscotti che hanno comprato tutti: perché non vogliamo restare emarginati dalle conversazioni alla macchinetta del caffè e vogliamo avere una nostra opinione su tutto. Se possibile, vogliamo essere i primi ad averla, risultando i più interessanti e i più citati in ufficio, candidandoci a essere influencer presso noi stessi.




Siamo completamente scollati dalla realtà

Così come è successo con i Nutella Biscuits, vogliamo fare con il Coronavirus: ci cibiamo di protagonismo sensazionalista. Stiamo alla finestra in attesa che qualcosa accada vicino a noi, per avere qualcosa di straordinario da raccontare, rispetto al piattume delle nostre esistenze quotidiane. Intorno a noi c’è una cappa di preoccupazione, di disinformazione, ma anche di attesa frizzante che qualcosa succeda, per poter raccontare al bar, fotografare, postare ed essere, ancora una volta, protagonisti del dramma. Vogliamo essere le prime fonti, vogliamo postarlo sul gruppo di Whatsapp del paese per essere quelli informati. A questo, forse, aggiungiamo anche la scarica di adrenalina data dal vivere situazioni pericolose.

Siamo completamente scollati dalla realtà. Traiamo un’inquietante sensazione di appagamento nel sapere di aver alimentato la disinformazione, conquistandoci l’attenzione degli altri. Vogliamo sentirci protagonisti di un  film americano di quelli sui disastri, in cui c’è l’eroe che salva il Paese e magari si fa pure Scarlett Johansson. Vogliamo una vita sensazionale, ma siamo capaci di fare solo i sensazionalisti.

Elisa Ghidini

 

 

 

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