La zona d’interesse è uno specchio della realtà odierna

La zona d'interesse traccia un filo rosso tra il passato e il presente

Immagine tratta dalla pellicola La zona d'interesse

La zona d’interesse, il nuovo film di Jonathan Glazer uscito in Italia lo scorso 22 febbraio 2024, è già una preziosa perla da conservare nel panorama cinematografico odierno. La sua portata artistica è accompagnata a doppio filo da una magistrale rappresentazione dell’attualità, in una visione tanto disturbante quanto veritiera della sempre più diffusa tendenza a rifugiarsi nella propria zona di comfort, ignorando tutto ciò che ne rimane fuori.

Un’atmosfera colma di suspence

La pellicola, in una commistione eccezionale di sonoro e visivo, segue da vicino la vita ordinaria della famiglia dell’ufficiale delle SS Rüdolf Hoss, condotta all’interno di una bucolica e rassicurante villetta con giardino, la quale tuttavia confina con il muro del più brutalmente celebre lager nazista: Auschwitz. Fin dalle prime immagini si percepisce un’inquietudine latente, destinata a crescere nel corso della pellicola.

Qui la vicinanza con l’orrore è esasperata, dal momento che fisicamente è rappresentata da un muro in mattoni, ma in pratica non esiste: niente può fermare le urla dei prigionieri, l’eco delle fucilazioni, le grida degli ordini degli ufficiali delle SS, il fumo nero che sale dai forni crematori, le punizioni corporali inflitte su chi si arrende alla sofferenza.

La geometria dicotomica del film

Il regista Jonathan Glazer crea uno spazio in cui convivono e coesistono una spensierata agiatezza e una soffocante costrizione, in inquadrature geometriche e strutturate in cui fa da protagonista l’imprescindibile indifferenza con cui gli abitanti di casa Hoss riescono a continuare a vivere e senza la quale l’abitare lì sarebbe visceralmente impossibile.

È la sfumatura che manca alla madre della protagonista, la cosiddetta regina di Auschwitz, la quale non può rimanere un attimo di più vicino alla figlia, nonostante le meraviglie del suo giardino, dell’orto e della serra, costruiti e progettati ad hoc, peccato per ciò che si trova al di là del muro. O meglio, peccato per il muro, perché ciò che il muro nasconde non viene mai menzionato.

Il film che denuncia celando l’orrore

Ed è qui che si evidenzia il magistrale operato della regia: lo sterminio non si vede mai, ma è onnipresente. In ogni frase, in ogni scena, in ogni sguardo, l’ombra del genocidio, dell’olocausto è lì, ad ogni colazione, pranzo e cena. La cornice di ogni scena è costituita dal fumo dei treni della morte, dei forni crematori, delle grida angoscianti dei prigionieri, ma rimane sempre al di fuori della zona di interesse della famiglia Hoss. Lo spettatore si trova quindi davanti ad una novità cinematografica assoluta: qui si affronta il tema senza affrontarlo, rimane il fulcro dell’intero lungometraggio nonostante non se ne parli mai ad alta voce.

Ed è così che il contesto non rimane tale ma si insinua nella quotidianità forzata della famiglia di Auschwitz, intaccando quella presunta perfezione e immacolata serenità, facendo fuggire la madre che non riesce ad ignorare le fiamme e quel nero fumo che soffoca l’aria, portando a continui incubi e al sonnambulismo di una delle figlie e al nervosismo cronico della padrona di casa, la regina di Auschwitz appunto.

La costruzione dell’angoscia

Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Martin Amis, nel film La zona d’interesse si ripercorrono gli anni della soluzione finale, gli ultimi ma atroci provvedimenti per continuare e portare a termine il genocidio del popolo ebraico, curando ogni dettaglio storicamente documentato: dalle riunioni delle più alte cariche naziste alle conversazioni con ingegneri ed architetti per progettare “il sistema più efficiente”, fino alla minuziosa attenzione ai dettagli linguistici, lo spettatore segue i passi del generale Hoss lungo tutta l’ultima progettazione del sistema dei campi di concentramento.

La parola ebreo non pervade i dialoghi, rimane sospesa nell’aria, pronunciata una manciata di volte ma senza espressione, un dettaglio non necessario da sottolineare: in questo modo veniamo proiettati nella mentalità nazista, in un una posizione in cui ci sentiamo scomodi e che ci porta a vivere tutta l’esperienza del film in un’angoscia che vorremmo terminasse con i titoli di coda.

Ma la portata del film è molto più di ampia veduta: ci si rende pian piano conto che in quella famiglia che conduce serena la sua esistenza, nonostante qualche piccolo intoppo ordinario che rischia di demolire la fortezza di illusione ma non vi riesce mai, i nostri volti e le nostre vite vi si riflettono anche troppo bene.

Oltre la zona d’interesse

La zona d’interesse è un film profondamente attuale: nella sua rappresentazione di una delle maggiori atrocità della storia umana, parla allo spettatore odierno come un monito a non ripetere ciò che è accaduto e si riferisce in particolare non alla violenza e alla cieca brutalità delle azioni, ma al sopirsi dell’interesse e al dominio della totale alienazione da ciò che accade intorno a noi.

L’ignorare ciò che accade attorno alla nostra zona di interesse è ciò che continua ad accadere e toglie qualsiasi possibilità di redenzione, come in una delle scene più brutali del film, in cui semplicemente si assiste allo svolgere delle mansioni dell’agenzia di pulizie del museo del campo di concentramento di Auschwitz. Il personale si occupa della vetrine in cui sono racchiuse le divise dei prigionieri, le montagne di scarpe e valigie di chi dal lager non ha mai fatto ritorno, come se dall’altra parte del vetro fossero esposti oggetti qualsiasi.

L’indifferenza e la violenza di questo disinteresse costituiscono il centro pulsante del film di Jonathan Glazer, vincitore all’edizione degli Oscar 2024 per miglior sonoro e miglior film internazionale, nonché vincitore del Grand Prix speciale della giuria all’ultima edizione del Festival di Cannes.

Tecla Chini

 

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