Per decenni, la tragedia di Euripide è stata tacciata di misoginia. Una lettura più attenta svela l’infondatezza del pregiudizio verso il poeta, il quale, più di ogni altro, ha saputo comprendere e dar voce alla psicologia femminile.
Euripide è considerato il primo grande poeta greco ad aver composto una tragedia propriamente “moderna”. Protagonista nei suoi versi non è più il divino, ma l’essere umano, scandagliato in tutte le pieghe più intime del suo animo. La sua riflessione è propriamente umana ed ancorata alla realtà, e osserva con attenzione la psicologia dei rapporti umani. I suoi personaggi rimangono quelli del mito tradizionale, ma perdono l’aurea d’infallibilità che caratterizzava gli eroi. Sono uomini e donne comuni, immersi in una dimensione di vita concreta e in preda ai sentimenti più ordinari, tra amore, odio e gelosie. La tragedia di Euripide, inoltre, porta una tematica innovativa per l’epoca: l’attenzione alla situazione della donna.
La donna nella letteratura greca
Nessuno prima di allora aveva mai denunciato le ingiustizie e le difficoltà della donna greca, rispetto anche al suo ruolo familiare e nelle situazioni quotidiane. Prima di Euripide, i tragici si limitavano a riproporre la concezione della figura femminile così come veicolata dalla mitologia greca. Gli antichi miti sono radicati nell’idea di donna come portatrice di tutti i mali: é Pandora ad aver posto fine all’età dell’oro, la colpevole, responsabile della diffusione sulla terra di mali e calamità prima inesistenti.
Nella letteratura greca la donna viene tradizionalmente rappresentata come passiva, inutile, responsabile solo di disgrazie. Al contempo, è dotata di una forza perversa primordiale, della physis (φύσις), che la porta a compiere azioni “folli” e istintive. Gli uomini, e gli stessi dei, rimangono ammaliati da questa forza e ne diventano succubi. Le donne sono sovente la causa delle ostilità tra gli uomini: Io, Europa, Medea e da ultima Elena, il cui fascino irresistibile causò lo scoppio della guerra di Troia.
Il disprezzo e lo stigma che investono la donna risaltano, ad esempio, nelle tragedie di Eschilo. Alcune battute delle sue Coefore, riferendosi alla “femminile tresca”, recitano:
Esso gli scempî origina. Libidine donnesca, su nuziale talamo se disonesta impera, vince in protervia ogni uomo e ogni fiera.
La tragedia di Euripide: tra le pieghe dell’animo femminile
Nella tragedia di Euripide, invece, l’impressione è che, al contrario, il poeta abbia voluto rivestire di alta dignità i personaggi femminili. Oltre a cancellare la perversione che li caratterizzava nella letteratura classica, Euripide si insinua tra le pieghe degli animi femminili, svelandone le profonde ferite e sofferenze, causa del loro agire. Le donne appaiono nella loro grandezza tragica, in contrasto con gli uomini, i quali svelano la propria natura vile ed egoista.
È il caso dell’Alcesti, la quale ha accettato per amore di Admeto a rinunciare alla propria vita, dopo il rifiuto dei genitori dell’eroe. La sua immagina è carica di dignità, quanto meschini e gretti per egoismo si rivelano i personaggi maschili, padre e figlio, nel loro reciproco rinfacciarsi la responsabilità della morte della donna.
Ugualmente scialba è la figura del personaggio maschile nella Medea. Giasone appare come l’uomo meschino e opportunista, che calpesta incurante l’amore di Medea, immemore degli enormi sacrifici da lei compiuti. Abbandonata e umiliata, Medea architetta una vendetta estrema, che culmina con l’uccisione dei figli. Benché rimanga una crudeltà immane, Euripide mostra come alla sua genesi vi sia un’enorme sofferenza. Medea grida che, se l’uomo “fatica” nei campi, in guerra, al governo della città, anche per la donna esiste una “fatica“. Nel parto, nell’allevamento dei figli, nella solitudine che segue l’arbitrario allontanamento dal marito, per cui essa ha sacrificato la propria famiglia.
L’uomo, se si stanca di stare insieme alla gente di casa, esce e vince la noia. Ma per noi non c’è che fare: c’è un’anima sola a cui guardare. Dicono che noi viviamo un’esistenza senza rischi, dentro casa, e che loro invece vanno a combattere. Errore! Accetterei di stare in campo, là, sotto le armi, per tre volte, piuttosto che figliare solo una volta.
Pari grandezza tragica connota nell’Ippolito Fedra. Sembra non esistere neppur una piega dell’animo femminile, con le sue ansie, i suoi turbamenti, la sua sensibilità, che Euripide non abbia sondato. L’importante personalità della donna ottenebra nella tragedia la figura di Ippolito, la cui morte è conseguenza di pusillanime pervicacia. La sua fine, decisa dal fato, viene notevolmente ridimensionata di fronte alla morte di Fedra, da lei stessa voluta.
L’ora delle donne
La tragedia di Euripide, pertanto, porta alla luce la svogliatezza degli uomini e la loro decadenza. La spedizione degli Argonauti è lontana, per Giasone è arrivato il momento dei compromessi e la guerra di Troia rivela i suoi oneri gravosi. È giunta l’ora delle donne, quelle che restano, quelle che piangono, quelle che raccolgono i cocci. È l’ora di Andromaca che piange il suo Astianatte, è l’ora di Ecuba che lo seppellisce accanto allo scudo del padre. È l’ora di Giocasta, distesa suoi corpi dei propri figli, la quale riconcilia grazie alla sua morte volontaria -ancora una volta il solo mezzo per agire- i fratelli nemici.
Nella tragedia euripidea sono le voci delle donne che si ergono a criticare la politica e l’ideologia ateniese, interrogandosi sul significato di giustizia. Parallelamente, avviene una decostruzione dei valori che reggevano la rappresentazione della mascolinità nella tradizione epica. Sono, così, le donne intellettuali ad interrogare il potere e i principi sul quale si fonda. Nel ricercare la giustizia, sono spesso costrette a dover fare giustizia da sé. Costoro si oppongono agli uomini, lascivi ed egoisti, alla ricerca di onori e di riconoscimenti (philotimoi), incapaci di assicurare il rispetto dei principi di umanità, alla base della convivenza.
Eva Moriconi