(Non)Vivere in Palestina
Da mesi il conflitto arabo-israeliano ha attirato l’attenzione dei media per la crudeltà con cui le due fazioni hanno condotto la guerra, ed in particolar modo per le numerose vittimi civili causate dagli attacchi israeliani. Non solo attraverso i bombardamenti indiscriminati, ma anche impedendo l’arrivo di aiuti umanitari dentro la striscia di Gaza. Le condizioni degli abitanti peggiorano di giorno in giorno, rendendo sempre più difficile parlare di “vita”, laddove anche solo la sopravvivenza risulta sempre più incerta. Riprendendo una locuzione impiegata da Theodor Adorno, potremmo dire che la vita è offesa in Palestina.
L’orrore delle guerre ci obbliga infatti a ripensare il significato del termine “vita”, spingendoci oltre il semplice dato biologico per considerare soglie al di là delle quali la stessa dignità dell’essere umano viene lesa. In Palestina le persone stanno morendo di fame, marciano per chilometri sotto il rumore incessante delle bombe, vivono per giorni immersi nell’odore dei cadaveri in putrefazione. A ciò si aggiungono le condizioni di chi viene catturato dalle forze israeliane. Si parla di torture nelle carceri, e le immagini di palestinesi denudati e messi in fila sotto il tiro dei fucili hanno fatto il giro del mondo.
Le condizioni estreme in cui versano circa due milioni e mezzo di individui – di cui la metà bambini –, dimostrano l’attualità delle riflessioni che pongono il corpo e la sua fragilità al centro dell’attenzione. Non c’è da stupirsi se molte di queste nacquero nel dopoguerra.
Theodor Adorno e la morale minima
Dopo gli eventi della seconda guerra mondiale occorreva elaborare l’accaduto, cercare di comprendere la violenza impareggiabile inferta su milioni di individui all’interno dei campi di concentramento. Theodor Adorno, filosofo tedesco di origini ebraiche, si votò interamente a questo compito: sia in quanto filosofo, sia in quanto superstite.
Nel 1951 pubblicò Minima Moralia, un testo cardine della riflessione filosofica del dopoguerra. Il sottotitolo “meditazioni della vita offesa” ne esplicita l’ispirazione e il carattere. Infatti, questo libro è lontano dallo stile sistematico tipico dei saggi filosofici. La forma scelta dall’autore è quella dell’aforisma. Il motivo sta proprio nella volontà di restituire la frammentazione del pensiero di fronte al collasso della ragione posta davanti a ciò che non può comprendere.
Gli aforismi vertono su numerosi argomenti, tessendo una trama sotterranea che porta alla luce il triste declino della nostra società, che dalle pretese illuministiche scivola sempre più verso un orizzonte inumano di violenza e alienazione. La caduta del nazismo non rappresentò la fine della tragedia per Theodor Adorno. Infatti, il Reich non era un semplice incidente della società civile, ma l’esito scontato dell’epoca tardo-industriale, in cui viviamo ancora oggi.
L’omologazione, il degrado della conversazione e del dialogo, la prepotenza del pensiero che da strumento diventa tiranno della vita – misconoscendo qualsiasi legame corporeo o naturale – sono sintomi di una società inumana. È così che si spiega l’epigramma iniziale: «La vita non vive». La zoé non è bíos. Tutto si riduce solo alla sua dimensione meccanicistica.
Ma lo scritto di Theodor Adorno ci fornisce, paradossalmente, gli strumenti per riabilitare l’essere umano. Ribadendo a più riprese che dopo i campi di sterminio qualsiasi discorso positivo sull’utopia suona come spazzatura, l’autore procede a darne una “ricetta” attraverso il negativo (in un movimento tipico della sua filosofia). Non possiamo dire come l’utopia dovrebbe essere, piuttosto possiamo dire come NON dovrebbe essere.
Theodor Adorno rifiuta qualsiasi tipo di universalismo, poiché la vita è stata violata nel suo fondamento più ultimo. Pertanto, non resta che rifondare una morale partendo dal concreto del corpo, e non dall’astratto del pensiero. Tutto ciò che possiamo dire è: «Non Auschwitz». No alla sofferenza. No alle torture. No ai bambini massacrati sul ciglio delle strade o sotto le macerie. No alla deportazione. Ma soprattutto: no al genocidio. Questi erano e sono ancora gli unici imperativi etici pronunciabili.
Perché la vita è offesa in Palestina?
Il timore che il regime nazista fosse inteso da tutti come un incidente di percorso e un caso isolato è sempre stato ben presente. La preoccupazione derivava dal fatto che così facendo si sarebbe andati incontro a una deresponsabilizzazione che avrebbe consentito al passato di ripetersi.
Oggi possiamo dire che quel timore era fondato. Malgrado l’orrore a cui abbiamo assistito, le guerre non sono mai cessate. L’umanità ha continuato con lo stesso macabro spettacolo che propone da millenni. La copertura mediatica di cui oggi disponiamo ci permette di guardare in faccia la violenza senza mediazione.
Cosa proviamo guardando quei reperti? Come possiamo interpretare il genocidio palestinese se non l’ennesimo caso di offesa alla vita? La vita è offesa quando un bambino giace inerme tra le macerie, e il suo grido di aiuto è coperto dal boato dei bombardamenti. La vita è offesa quando ad anziani e malati si rifiuta il diritto ad un’assistenza sanitaria perché “terroristi”. La vita è offesa quando milioni di individui sono ridotti alla fame e alla sete, ammassati su un confine in attesa che gli aerei vadano via. La vita è offesa quando le ragioni politiche la sovrastano e il suo valore diventa inferiore a quello della morte.
Per Netanyahu quei due milioni e mezzo di palestinesi valgono più da morti che da vivi e l’immobilità delle altre forze politiche è complicità. Sebbene a lungo abbia prevalso la linea del sostegno a Israele, di fronte allo scempio dei bagni di sangue quotidiani anche le istituzioni hanno iniziato ad agitarsi. I cittadini hanno manifestato il loro cordoglio per la sofferenza palestinese in tutto il mondo in maniera sempre più netta, e nessuna repressione poliziesca li ha ridotti al silenzio. Questo è il segno che la speranza di quell’utopia negativa delineata da Theodor Adorno sopravvive ancora.
Finché l’orrore della guerra accenderà in noi il fuoco della protesta, finché i corpi ingiuriati di migliaia di vittime innocenti saranno immagini inaccettabili, che impongono una presa di coscienza collettiva e una mobilitazione contro le istituzioni; allora potremo dire che la morale sopravvive ancora, sia pure nella sua forma minima, e che anche di fronte all’orrore un’utopia è ancora possibile.