La parabola di vita di don Milani è bella è complessa, affascinante e piena di profezia. In questi giorni molti scrivono di lui senza aver mai approfondito o letto molto. Questa è una fonte autorevole da cui partire. Scritta da p. Vanzan, un gesuita con cui ho vissuto e a cui era legato.
“Don Milani arrivò a San Donato il 9 ottobre 1947, in una sera di fitta pioggia, e trovò ad accoglierlo il suono delle campane, don Pugi e una quindicina di giovani. Fin dall’inizio il suo obiettivo fu abbattere i muri divisori tra Dio e i non credenti, tra il Vangelo e i «lontani», tra il prete e i poveri, e capì subito che per raggiungerlo non doveva stare in parrocchia, ma andare a cercare gli «infedeli» nelle case, nelle fabbriche, nelle Case del popolo e farsi, come insegna san Paolo, «tutto a tutti» (1 Cor 9,22): non solo povero tra i poveri e orfano tra gli orfani, ma anche, in un mondo ormai avviato verso la guerra fredda, operaio tra gli operai e «comunista tra i comunisti». Per questo prese la bicicletta e diventò missionario del Vangelo, girando per le campagne e le fabbriche di San Donato, dove tra i 1.200 abitanti – in gran parte operai nelle aziende tessili di Prato, ma anche contadini, muratori e artigiani –, forte era la divisione politica tra democristiani e comunisti: i primi frequentavano la parrocchia, specialmente i circoli Acli, e i secondi, ben più numerosi, si riunivano nella Casa del popolo. Prima sua preoccupazione fu di essere credibile agli occhi dei parrocchiani, e in tale ottica avvertì ben presto che i mezzi usati, specie per attirare i giovani, non erano quelli giusti. Non serviva il ping pong, né il pallone e ancor meno il circolo ricreativo per convincere un giovane a venire in parrocchia. Anzi, col suo tipico massimalismo, giudicò quei mezzi «indegni di un prete». Era necessario combattere la mancanza di cultura: vero ostacolo sia all’evangelizzazione, sia all’elevazione morale del popolo”.