Lunedì 20 giugno, alla vigilia di un’altra torrida estate, è trascorsa la giornata del rifugiato.
I nodi sono bene stretti al collo, e le porte sono chiuse.
Credevo che sarebbe successo, e invece mi sbagliavo.
L’accaduto è passato pressochè inosservato, schiacciato dalle rumorose ed echeggianti vicende politiche; come un sasso lanciato in un mare, abitato da pescecani affamati, ed è stato subito fagocitato. Della giornata del rifugiato non è rimasto che un ricordo, un’altra tacca distratta aggiunta ad un calendario affollato.
Eppure io di gente ne vedo per le strade, sui marciapiedi, ammassati come sardine, soffocati dall’indifferenza generale, e dal silenzio che ci regna attorno.
Credevo che un evento che celebra quella miriade di persone che invade le nostre strade, i nostri mari, i nostri centri di accoglienza, le nostre giornate, le nostre vite, sarebbe servito, come grido oppresso di una sofferenza inaudita; quella provata da un uomo, una donna, un bambino. Credevo potesse essere un invito per i cittadini a riflettere sulla situazione che stanno vivendo migliaia di esseri umani, e del rapporto di indignazione che abbiamo noi nei confronti dei nostri simili.
Esistono persone al mondo che credono che tutti gli esseri umani, indipendentemente dal sesso, dalla religione, dalla nazionalità, abbiano gli stessi diritti, nei confronti dell’esistenza. Si chiamano diritti umani.
Che cos’è un rifugiato, chi è, e perchè non dovrebbe godere di tali diritti?
Il rifugiato politico è ciò che potrebbe essere definito l’emblema di tutte le contraddizioni del mondo globale. E’ un prigioniero di due stati, quello da cui è fuggito, e quello che l’ha accolto… Senza godere di nessuna cittadinanza. Un rifugiato è quindi un uomo, una donna, un bambino, costretto a vivere senza un volto. Cittadino invisibile e fantasma, ridotto a navigare in un limbo, tra il Paese di origine, dal quale è stato costretto a fuggire, e quello in cui si trova, che non offre nessuna prospettiva di una vita dignitosa.
Non sto parlando di nient’altro che un’altra vergogna, di cui si macchia il mondo europeo. I rifugiati fuggono da conflitti e regimi dittatoriali sostenuti, direttamente o meno, dai nostri governi. Fatti che di certo non ci rendono onore, e non rendono la dignità a questi milioni di esseri, che affollano mari e le nostre coste.
Quali sono i vincoli veri, palpabili, che un rifugiato incontra, nel momento in cui varca quella maledetta soglia, del confine italiano? Prima di tutto, per lui, risulterà assolutamente impossibile dare una continuità alla vita che conduceva, e che avrebbe voluto spianare, una volta raggiunto il Paese ospitante. Sogni ed ambizioni per i quali ha rischiato la vita, intraprendendo il viaggio della speranza, in quel barcone di Caronte, dove non esistono aspettative né speranze.
La condizione di rifugiato non ti permette di continuare un’attività che mantenga, per lo meno, una rete di collegamento con quello che studiavi, lavoravi, o aspiravi a fare, nel Paese di origine. Tutto muore, anima e corpo, seppellito in fondo ad un mare che già accoglie, tra le sue acque, milioni di cadaveri.
Cosa significa davvero lasciare la tua casa, tuo figlio, tua madre, sola ed agonizzante, in mezzo ad un deserto che non riconosci? Cosa vuol dire davvero sentire quella gocciolina di sudore che ti rinfresca la fronte, e sapere che è la sola gocciolina, in mezzo ad un mare di sabbia, che riuscirai a bere in giornata? Cosa significa affrontare le inerperie più atroci, per tentare di dare una svolta definitiva ad un’esistenza maciullata dalla follia della guerra?
Non lo sappiamo. Non lo sappiamo perchè siamo nati dalla parte fortunata del mondo, e i nostri diritti umani ,non sono stati mai violati.
Ma questa non può, e non deve essere una scusa.