Il maschilismo latente
“La Trama alternativa” (2023) di Giusi Palomba, edito da Minimum Fax, esplora un orizzonte di giustizia diverso dal sistema punitivo e carcerario a cui tutti noi siamo abituati. La strada percorsa dall’autrice porta a una forma di responsabilizzazione collettiva e di trasformazione della comunità coinvolta, esplorando i meccanismi sociali che rendono possibile la violenza, estirpandoli insieme, attraverso l’elaborazione e la responsabilizzazione. Perché punire non è la soluzione.
Nella prima parte del libro l’autrice trae spunto da una vicenda biografica. Racconta quindi la storia di Giusi, che si è appena trasferita a Barcellona, e Bernat, attivista femminista spagnolo, eccentrico e pieno di energie che impiega al servizio della comunità. Indomabile e con una personalità magnetica, aiuta la protagonista a inserirsi nel contesto caotico della città, facendole esplorare le realtà trasformativa nascosta oltre l’apparenza turistica.
È così che si aprono nuove possibilità di collaborazione con persone e associazioni che lavorano per mettere in pratica le riflessioni femministe, analizzando la struttura patriarcale che domina gli spazi sociali e decostruendola. Ma in questi nuclei si scopre anche un machismo latente, che mostra come il maschilismo sia talmente radicato nella nostra società, da influenzare e annidarsi anche laddove sarebbe impensabile.
Ed è proprio questo maschilismo nascosto che sconvolge le vicende: Bernat, dopo essere stato lasciato dalla fidanzata, in una serata sopra le righe violenta Mar. Lo veniamo a sapere dalle voci di Pau e Muriel, due attivisti contattati proprio dalla ragazza che ha subito l’abuso. Piuttosto che ricorrere all’iter penale, affidando il suo trauma a un’istituzione che avrebbe cercato di riparare al danno attraverso ulteriore sofferenza, Mar decide di gestire lei stessa il suo dolore. Mobilita il protocollo di giustizia trasformativa presente all’interno della comunità.
Si tratta di una messa in discussione collettiva, in cui ogni individuo ragiona insieme agli altri per cercare di capire quali sono state le sue responsabilità, senza lasciare che tutto si riduca alla stigmatizzazione tra vittima e colpevole. La visione che presenta certi atti come follie di singoli è pura illusione. L’intero contesto li rende possibili.
Il contributo collettivo
Isolare Bernat in una cella non sarebbe servito a nulla. La vendetta non ripara, non cura. A cosa sarebbe servito rovinargli la vita senza alcuna garanzia che sarebbe cambiato e avrebbe compreso i suoi errori? Mar preferisce intraprendere un percorso di responsabilizzazione e di presa di coscienza. Per dirlo con le parole dell’autrice: «L’isolamento può generare angoscia e rabbia, può esacerbare dei comportamenti asociali; l’isolamento non genera riflessione o consapevolezza, non cambia, non trasforma, non educa. È solo isolamento».
Grazie al sostegno dato da amici e specialisti, Bernat comprende il peso delle sue azioni, e ne comprende anche le cause: abituato ad essere al centro dell’attenzione grazie al suo carisma e al suo ruolo, ed avendo sentito che per la prima volta non aveva più il controllo su qualcuno (la sua ex ragazza), la violenza su Mar era stata un modo per imporsi nuovamente. Il patriarcato esige che gli uomini abbiano il controllo e che non si mostrino vulnerabili. Con quell’azione, Bernat aveva quindi voluto ristabilire una dinamica di dominio.
Comprendere i motivi e il peso di ciò che si è fatto, è di fondamentale importanza per un sistema che vuole veramente rieducare nella maniera corretta i suoi cittadini. Solo così si può porre un argine al dilagare della violenza. Conoscendo le cause, si può agire e prevenire.
La difficoltà di superare il punitivismo
Il percorso non è privo di difficoltà. In primo luogo, Bernat si mostra reticente all’inizio della terapia. Dice di non avere commesso il crimine, di non ricordare. In secondo luogo, malgrado le intenzioni di Mar di proteggere l’immagine di Bernat, le voci corrono, e numerosi gruppi femministi protestano perché ritengono il trattamento troppo leggero. Sembra quasi un favoritismo. Infine, Bernat è costretto a lasciare i suoi incarichi pubblici (tranne quelli che garantiscono la stabilità economica) per ripensare il suo ruolo nella società, per lasciare spazio ad altre voci, e deve allontanarsi dalla comunità frequentata anche da Mar (una soluzione temporanea, finché la ragazza non si sentirà al sicuro).
Il percorso dura anni, ed è faticoso anche per Giusi, che deve realizzare ciò che ha fatto il suo migliore amico. Una persona che lei credeva di saper guardare. Si deve misurare con se stessa, con le volte in cui Bernat gridava aiuto senza che lei fosse in grado di prestare ascolto, e deve anche affrontare la rabbia che nutre nei suoi confronti. Perché Bernat l’ha delusa, e una parte di lei concorda con chi lo vorrebbe vedere in carcere. «Perché in fondo la cultura in cui viviamo ci fa sembrare assurdo anche soltanto pensare ad alternative alla punizione».
Ma cosa otteniamo con la punizione? Ripariamo un torto subito? Ci viene restituito ciò che abbiamo perso? L’iter giuridico tradizionale in realtà priva la donna della possibilità di elaborare ciò che è successo. «Ora ci pensiamo noi» le dice la giustizia mentre porta via l’uomo. Ma lei rimane sola ad affrontare lo strappo interiore. Nessuna punizione può farci ristabilire l’ordine precedente, nessuna punizione può ricomporre i pezzi dell’animo di una donna che la violenza sistematica in cui viviamo ha disperso. Non esiste modo per tornare indietro, si può solo cercare di ricomporre i pezzi e andare avanti.
Un lavoro interminabile: punire non è la soluzione
Questo è il messaggio della giustizia trasformativa: nella rabbia che brucia le ferite, c’è anche ciò che ci spinge a un’elaborazione e offre un cambiamento. Il percorso è faticoso e lungo, spaventa. Spaventa, perché se punire non è la soluzione, significa accettare anche che, in fondo, una soluzione definitiva potrebbe non esistere. La giustizia trasformativa è infatti un processo sempre aperto, poiché credere che il lavoro di autocritica sia terminato rischierebbe di rigenerare gli stessi meccanismi che in primo luogo hanno dato vita al dramma di Mar.
Punire non è la soluzione per chi subisce la violenza. Punire non è la soluzione per chi la commette. Punire non è la soluzione per la comunità. Punire non è la soluzione, perché ciò che dovremmo veramente volere non è la vendetta, ma il cambiamento.
Negli ultimi anni sono nate numerose associazioni e centri che diffondono queste pratiche di giustizia alternativa e aiutano le donne dando consigli su come agire in eventuali situazione di pericolo, come Right to be o il Barnard Center for Research on Women. Il proliferare di questi movimenti che operano attraverso canali differenti da quelli istituzionali risponde al bisogno delle persone di elaborare le loro emozioni. La giustizia punitiva non riesce infatti a dare valore al lato umano emotivo. Tuttavia, è proprio questo che dovrebbe avere la priorità, poiché «la capacità di riparare e di trasformarsi può rendere superflua la punizione».