La strage del Rapido 904: un’intreccio complesso di moventi e protagonisti

Rapido 904

Il "rapido 904" fermo nella stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna) dopo l'attentato, in una immagine del 23 dicembre 1984. ANSA

Il 23 dicembre 1984, un’esplosione invase il Rapido 904, un treno diretto a Parma, causando morte e distruzione. Questo tragico evento rappresenta uno dei capitoli più oscuri nella storia recente dell’Italia, con implicazioni che coinvolgono la mafia, la politica e un intricato intreccio di moventi.


La strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 rappresenta un tragico episodio nella storia dell’Italia contemporanea. La strage coinvolse un treno diretto a Parma, e il suo impatto fu devastante, causando numerose vittime e feriti.

Il Rapido 904, un treno partito da Napoli alle 12.55 del 23 dicembre 1984, aveva molti passeggeri a bordo, tra cui numerosi meridionali diretti al Nord per trascorrere le festività natalizie con i loro parenti.

Alle 19.08 di quel tragico giorno, quando il treno aveva lasciato la stazione di Firenze da mezz’ora, un’esplosione terribile proveniente dal vagone 9 di seconda classe squarciò il treno e ne fermò la corsa. Ciò che rese l’evento ancora più devastante fu il fatto che l’esplosione avvenne nella Grande Galleria dell’Appennino, tra le stazioni di Vernio e S. Benedetto Val di Sambro, la stessa zona in cui dieci anni prima si era verificata la strage dell’Italicus. Se il treno in direzione opposta fosse entrato nella galleria, le conseguenze sarebbero state ancora più gravi, ma grazie a un piccolo ritardo e all’intervento del macchinista e dei ferrovieri, si evitò una tragedia ancora peggiore. L’esplosione causò uno squarcio impressionante nel treno, in particolare nel vagone 9, che fu completamente devastato.

La strage del Rapido 904 ebbe conseguenze devastanti. Quindici persone persero la vita, tra cui tre bambini e un’intera famiglia, i De Simone. Inoltre, 267 persone rimasero ferite, alcune in modo grave. Un sedicesimo passeggero, Gioacchino Taglialatela, padre di una delle vittime, la piccola Federica, morì poco dopo a causa delle ferite riportate.

I sopravvissuti raccontarono l’orrore dell’esplosione: il boato, il buio, il fumo denso e un silenzio irreale causato dal trauma ai timpani, seguito dal caos, dalle urla disperate e dall’orrendo spettacolo di corpi straziati.

Nonostante l’immediato e efficiente intervento dei soccorritori, ci volle più di un’ora e mezza per raggiungere il luogo dell’esplosione. Il denso fumo all’interno della Galleria dell’Appennino rappresentava la sfida principale per i ferrovieri che raggiunsero per primi la scena. Paolo Vandelli, uno dei soccorritori, descrisse la galleria come un muro di fumo e polvere, rendendo difficile il raggiungimento del convoglio mentre i sopravvissuti cercavano di fuggire come potevano.

L’esplosione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posizionata su una griglia portabagagli. La sua collocazione avvenne presumibilmente durante una sosta a Firenze. Una delle sopravvissute, Rosaria Gallinaro, dichiarò di aver visto un uomo a Santa Maria Novella che sistemava due borsoni sulla griglia portapacchi del corridoio invece che negli scompartimenti, dove c’era spazio disponibile.

Diverse rivendicazioni arrivarono subito dopo l’esplosione. Una telefonata all’Ansa affermò che la strage non doveva essere considerata “una trama politica”, ma un atto della mafia, e che la bomba non era a tempo, ma telecomandata. Una chiamata al “Corriere della Sera” attribuì la responsabilità della strage alla mafia, ‘ndrangheta e politici che erano stati ostacolati nella loro attività di traffico di droga. Tuttavia, gli autori di queste rivendicazioni non furono mai identificati.

Le indagini si concentrarono su due piste principali. La prima aveva origine nella segnalazione fatta da Carmine Esposito alla Questura di Napoli pochi giorni prima della strage, la quale portava al clan di Giuseppe Misso, un gruppo camorristico con legami neo-fascisti. La seconda pista aveva sede a Roma e fu avviata con l’arresto di Guido Cercola, un collaboratore di Pippo Calò, un noto mafioso. Durante le indagini furono scoperti dispositivi radioelettrici capaci di innescare esplosioni simili a quelli usati per la strage. Inoltre, furono rinvenuti esplosivi e detonatori in un casale associato a Cercola. Calò svolgeva un ruolo chiave in questa vicenda, essendo stato definito il “cassiere della mafia” con legami tra mafia siciliana, camorra napoletana, malavita romana e ambienti neofascisti.

Il processo relativo alla strage del Rapido 904 fu complesso e coinvolse diverse persone, tra cui membri della mafia siciliana, della camorra e anche politici. Tuttavia, nessuno degli imputati fu condannato per il disastro ferroviario. In un controverso sviluppo giuridico, la Cassazione annullò le sentenze di condanna emesse in primo grado, in quanto si basavano su prove ritenute inammissibili. Nel 2005, il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati, alimentando ulteriormente il mistero su chi fosse davvero responsabile della strage del Rapido 904.

La strage del Rapido 904 rimane una delle pagine più oscure della storia italiana. Le vittime e i loro familiari hanno dovuto affrontare una serie di ingiustizie nel corso delle indagini e dei processi che hanno seguito la tragedia. La complessità degli intrecci tra criminalità organizzata, politica e ambienti neofascisti in questo caso rende difficile stabilire con certezza chi fosse il vero mandante di questa strage. Questo tragico evento rimane un doloroso capitolo nella storia italiana, un’ombra che continua a gettare dubbi sul sistema giudiziario e sulle forze dell’ordine. La strage del Rapido 904 serve come monito delle sfide e delle contraddizioni che l’Italia ha affrontato nel corso del suo percorso storico.

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