La storia di Francis Ngannou, da migrante senzatetto a campione di MMA

Francis Ngannou

Francis Ngannou, detto “The Predator”, è il nuovo campione di Pesi Massimi dell’UFC, la più importante organizzazione mondiale nel campo delle MMA. Eppure solo otto anni fa Ngannou viveva per le strade di Parigi, senza soldi e senza dimora. Ma con una gran voglia di combattere: la stessa che l’aveva condotto dal Camerun all’Europa, attraverso gli orrori delle rotte migratorie.

Lo sport, a volte, riesce ancora a sorprenderci. Pensiamo di aver già visto tutto, e che, nell’epoca dell’efficientismo agonistico e delle prestazioni calcolate al millimetro, non ci sia più spazio per imprevedibilità e colpi di scena. Poi arriva un uomo come Francis Ngannou, e torniamo a strabuzzare gli occhi, a emozionarci per una competizione, a sognare una vittoria. D’altronde, quella del nuovo campione di Pesi Massimi dell’UFC non è sicuramente una storia che si sente tutti i giorni.

Basti pensare che Ngannou ha intrapreso la sua carriera di combattente nelle MMA (le arti marziali miste) a 27 anni: un’età già avanzata, alla quale è difficile, per un esordiente, raggiungere le massime vette agonistiche. Oggi il lottatore camerunese di anni ne ha 34, ed è sul tetto del mondo.

Ngannou d’altronde ha passato una vita intera a combattere, anche prima di mettere piede su un ring; già da quando, a soli dieci anni, si vide costretto a lavorare nelle cave di sabbia del suo paese, Batié, nel Camerun occidentale. La sua giovinezza trascorre così tra impieghi precari e i rischi rappresentati dalle bande criminali locali, che tentano in più occasioni di avvicinarlo. A  22 anni scopre la passione per la boxe, ma a Batié, purtroppo, non esistono palestre in cui allenarsi, né, in generale, grandi prospettive per il futuro. Ed è così che il giovane, nonostante il parere contrario dei familiari, decide infine di affrontare il lungo viaggio verso l’Europa. Quattordici mesi infernali, tra fame, fatiche e sevizie, che lo porteranno infine a Parigi, con appena cento euro in tasca e nessun posto dove dormire.

Quattordici mesi

Ngannou ha 26 anni quando decide di abbandonare il Camerun. Il suo obiettivo è raggiungere le coste europee; non ha una meta precisa, sa solo che deve andare “a Nord”. Vuole dimostrare alla famiglia e al mondo di cosa è capace. In una recente intervista con Joe Rogan ha ricordato:

“Volevo provare alle persone che dubitavano di me che, insomma, non era colpa mia. Che se ne avessi avuto l’occasione avrei fatto qualcosa di grandioso.”




Ma prima della vetta, c’è il viaggio. Ngannou intraprende la lunga traversata del Sahara, aggrappato, insieme ad altri migranti, al retro di un fuoristrada. Per preservare i pochi soldi che ha con sé, non può far altro che ingoiarli e poi recuperarli dalle feci. Durante la tratta i mezzi scarseggiano: il giovane si vede costretto ad abbeverarsi da pozzi in cui galleggiano animali morti, ben consapevole che ciò potrebbe costargli la vita, ma anche che, se non lo facesse, morirebbe di sete.

Giunto in Marocco, tenta ripetutamente di imbarcarsi per l’Europa, ma la polizia locale lo respinge in più occasioni. Ngannou si accampa dove può, mangia quello che trova: nell’intervista ricorda di essere arrivato a contendersi con i topi il cibo gettato nelle spazzature dei mercati. La sua tenacia è tale che la prima volta che tenta (senza successo) la traversata del Mediterraneo, lo fa remando con le mani.

Dalle strade di Parigi all’UFC

Finalmente, il giovane riesce a superare lo stretto di Gibilterra; ma viene subito arrestato in Spagna per ingresso illegale nel Paese. Dopo il rilascio, Francis Ngannou giunge in Francia. Qui vive allo sbando per mesi, prima di essere accolto da un’associazione umanitaria operante a Parigi. Ngannou vi lavora come aiuto cuoco, cerca di dare una mano dove possibile; ed è a questo punto che la sua vita conosce una svolta. Il presidente dell’associazione lo nota e gli presenta il coach Fernand Lopez Owonyebe. Il giovane camerunese d’altronde ha una fisicità che non passa inosservata: è alto quasi due metri e pesa centoventi chili, sembra davvero nato per lottare.

Lopez capisce subito di avere tra le mani un talento naturale. Gli offre un alloggio e si propone di allenarlo gratuitamente, affidandolo alla guida del lottatore Didier Carmont: sarà lui a indirizzarlo alle arti marziali miste, ma anche a fornirgli sostegno economico e amicizia. Pochi mesi dopo, nel novembre del 2013, Ngannou è pronto per il suo primo incontro ufficiale. La sua potenza non ha eguali, la sua capacità tattica cresce con l’allenamento. Nel 2018, dopo una serie di schiaccianti vittorie, si ritrova così a fronteggiare per la prima volta il campione mondiale Stipe Miocic. Il combattente croato ha in quest’occasione la meglio, ma Ngannou non demorde e si prepara per la rivincita.

E questa, immancabilmente, arriva: il 27 marzo 2021, Francis Ngannou sconfigge finalmente Miocic. I cronisti strabuzzano gli occhi: oltre alla ben nota forza fisica, il lottatore dimostra per l’occasione una finezza strategica degna dei grandi campioni. Il titolo è suo: Ngannou, il migrante, il senzatetto, l’esordiente tardivo, diventa campione di Pesi Massimi.  É il primo africano a conseguire questo traguardo, il terzo se consideriamo anche le altre categorie di MMA. Solo due anni fa, il numero di campioni africani era pari a zero.

Una storia comune

Ogni favola ha la sua morale, e questa non fa eccezione. La carriera di Francis Ngannou è fuori dal comune, ma la storia della sua vita, purtroppo, non lo è. Fa sicuramente scalpore leggere di uno sportivo di fama internazionale che ha dovuto lavorare fin da bambino, ha sofferto la fame e i rischi di un viaggio migratorio, e infine ha vissuto per la strada cercando di arrangiarsi come poteva. Eppure il suo percorso è lo stesso di tanti altri migranti, che ogni giorno subiscono le stesse angherie e umiliazioni. Ngannou ha reso celebre una storia che è in realtà tristemente comune, conclusasi però con un lieto fine; a differenza di tante altre, che ci rimangono sconosciute.

Ngannou non ha certo dimenticato le proprie radici. Tre anni fa, al termine di un match, ha chiesto a gran voce la libertà per i suoi fratelli bloccati e imprigionati in Libia. Ad oggi continua a collaborare con le associazioni umanitarie, e ha avviato anche alcuni progetti nel proprio paese natale. Grazie a lui Bitié ha ora una palestra, in cui altri giovani possono rincorrere i propri sogni.

Elena Brizio

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