Il nuovo film di Gianfranco Cabiddu che racconta l’essenza del teatro
Un’isola persa nel mar Mediterraneo e una storia tutta da raccontare, dal 1 dicembre al cinema
Quando il teatro si intreccia alla vita, quello che ne risulta è uno spettacolo che supera le aspettative della platea. La stoffa dei sogni, di Gianfranco Cabiddu, in questi termini, è un film che commuove, emoziona e nel fluire dei secondi, crea una strana empatia con lo spettatore.
Frutto della commistione di due grandi opere teatrali, quali La tempesta di William Shakespeare e la relativa rivisitazione in napoletano di Eduardo De Filippo – che il film si propone di omaggiare – esattamente come fa il teatro da cui prende spunto, indaga all’interno della condizione umana.
Da lì un viaggio all’interno di vizi, virtù, incomprensione, compassione. Di lì la messa in scena più autentica delle passioni del cuore umano, in una forma dalla semplicità disarmante, che indaga e insegna, che scopre e non condanna, in maniera intima, con un’efficacia che trasforma un film apparentemente di nicchia, adatto a chiunque.
Nadia Fusini, critica, traduttrice, studiosa ed esperta del teatro shakeasperiano, nell’analizzare l’opera dice che “La Tempesta diventa specchio di tutte le nostre tempeste”.
Questo è quanto avviene lungo lo scorrere dei minuti di proiezione, a partire da quel naufragio per cui “il mare tiene le sue regole e non guarda in faccia a nessuno”, si vanno ad intrecciare una moltitudine di storie, in superficie del tutto indipendenti l’una dall’altra, ma la cui commistione crea il fulcro scatenante la vicenda.
Abbiamo il direttore del carcere De Caro, apparentemente un uomo tutto d’un pezzo, interpretato da uno straordinario Ennio Fantastichini, caratterizzato da un senso di protezione distruttivo nei confronti della figlia Miranda (Gaia Bellugi), che palesa tuttavia la sua umanità prim’ancora di arrivare alla fine, in uno sguardo sognatore rivolto all’orizzonte marino.
E sarà proprio da quell’orizzonte che comprenderà che la figlia non gli appartiene, che i figli sono “i figli e le figlie della forza stessa della Vita”, diventando quell’ “arco dal quale, come freccia viva” lancerà la figlia in avanti nella straordinaria avventura della vita.
D’altronde, come il Direttore stesso dice lungo il film, “l’uomo si costruisce sempre
una sua indipendenza nell’ambire alla libertà.”
Vi sono poi i naufraghi, un geniale Sergio Rubini, nel ruolo di Campese, il capocomico, approdato sull’isola con moglie, figlia e un suggeritore parte di quella strana compagnia teatrale. Don Vincenzo insieme agli altri due camorristi, interpretato da Renato Carpentieri, che durante il naufragio crede di aver perso il figlio, motivo di tormento incessante.
Vi è poi Calibano, il selvaggio Calibano, superstite di un’isola occupata dal carcere: in lui vi è forse la sintesi della storia stessa. Vi è l’emozione e la profondità di uno sguardo che dice più di mille parole.
L’interpretazione di questo complesso personaggio riesce al meglio a Fiorenzo Mattu, commevente, eccezionale attore, che porta con sé la vera essenza del teatro all’interno del film. Ed in quello sguardo notturno rivolto alle stelle c’è forse tutto quanto il film vuole insegnare: la vita, nelle sue tempeste interiori ed esteriori, non è altro che un viaggio che eleva l’ordinario a straordinario.
Scrive nelle Note di regia Cabiddu che “il film parla di questo rapporto diretto fra un artista e il suo pubblico, parla della necessità dell’arte per capire il mondo, e soprattutto parla di uomini, con le loro pulsioni e aspirazioni”, ripercorrendo l’arte drammatica non solo di quel teatro di vita di Shakespeare, ma in particolare della genialità di De Filippo.
E ci riesce, nel riflesso di una luce laterale posta sul palco dell’esistenza.