Di Andrea Umbrello
La scienza ha troppa visibilità, per questo abbiamo smesso di crederle, verifichiamo poco e sappiamo ancora meno.
Tutti avremmo bisogno di ritirarci un po’ dal mondo. Un mondo che da quasi un anno non è più lo stesso, investito con ferocia da un nemico invisibile. Un mostro che potrebbe spuntare fuori da qualunque angolo delle nostre paure più profonde e trasformarsi in realtà. Un avversario terribilmente impercettibile, ma così poderoso da mettere in ginocchio ogni strato sociale, economico e politico delle nostre comunità.
Polmoni, cervello, fegato, cuore e occhi. I danni causati dall’attacco del nuovo coronavirus interessano un lungo elenco di organi e tessuti del nostro corpo. Tuttavia, ci sono molti altri effetti, forse ancora più pericolosi, che non possiamo permetterci di trascurare. Il virus è stato in grado di frantumare in poche settimane, ciò che rimaneva del senso di solidarietà. Solidarietà tra lavoratori e disoccupati, giovani e meno giovani, dipendenti statali e partite Iva. Ma c’è un nuovo gruppo rivale che si è venuto a creare e che determina l’abisso culturale in cui stiamo tutti inesorabilmente precipitando: quello degli epidemiologi, virologi, pneumologi e scienziati tutti.
La caccia alle streghe è quindi arrivata a coinvolgere nel suo tormentoso vortice anche il settore della ricerca scientifica, e a spiegarci come si è giunti a questo punto, sono le stesse comunità scientifiche, attraverso lo studio dei processi mentali e del comportamento umano.
Secondo le più diffuse e condivise teorie sulle cospirazioni, sono sempre di più le persone che registrano la tendenza a credere ai complotti. Questo succede perché all’interno della cospirazione diventa molto più semplice riuscire a trovare risposte semplici a quesiti complessi, che spesso, sono saldamente correlati a questioni economico-sociali articolati.
Tra il basso livello di istruzione e interi gruppi di ricerca freneticamente impegnati nella soluzione al problema, sembra non mancare nessuna pedina per la creazione di due fronti contrapposti, col mondo scientifico in difficoltà sotto il fuoco nemico come in pochi altri precedenti.
Il quadro sembrerebbe già sufficientemente deludente, ma in mezzo a complottisti e scienziati, c’è una terza categoria che punta a ricoprire un ruolo da protagonista. Tra informazione e disinformazione, il mondo dei media scende in campo in qualità di arbitro di una partita che non si dovrebbe giocare affatto.
Al di fuori della comunità scientifica, non sono molte le persone che conoscono i concetti cardine attorno ai quali ruota l’intero movimento scientifico. Uno dei più importanti ha coinvolto scienziati del calibro di Enrico Fermi e Albert Einstein, ed è l’accettazione dell’errore come una delle tanti fasi necessarie per arrivare al successo.
Oppure, pensiamo a Guglielmo Marconi, irremovibile sull’esistenza di onde radio assorbite e ri-emesse dalla superficie terrestre. Senza il suo abbaglio, non avremmo il moderno sistema di TV e radio, perché nonostante l’incoerenza scientifica della sua teoria, la sua attività di ricerca portò alla rivelazione della Ionosfera, lo strato dell’atmosfera che fa riflettere le onde radio, oggi indispensabile per l’utilizzo delle attuali telecomunicazioni.
Un uomo di scienza lo sa bene, e durante il percorso che porta al sapere, e che si percorre da secoli, ha imparato che ci sono molti modi in cui si può sbagliare, ma che allo stesso tempo, esistono molti modi in cui si può migliorare imparando dall’errore.
Entrando in quest’ottica, l’errore non è sinonimo di debolezza, ma una porzione fondamentale dell’evoluzione scientifica. Così come comunemente detto nella vita “sbagliando si impara”, allo stesso modo la scienza prosegue per errori.
Secondo Stephen Hawking, ogni errore rappresenta il superamento di un pregiudizio e l’apprendimento di qualcosa di nuovo. Il problema è che non tutti sono dei geni come lo scienziato inglese e non sono molti ad avere la capacita di mettere in discussione le proprie teorie con lo scopo di migliorarle e migliorarsi.
Accompagnata da milioni di spettatori quotidiani, è su questo sottilissimo filo che il mondo dell’informazione sta camminando. Un filo che rappresenta il confine tra corretta informazione e l’abisso dell’ignoranza generata dalla necessità di rendere tutto estremamente facile e fruibile.
Ed è qui che nasce il grave errore che i media di ogni tipo stanno compiendo: mettere eccessivamente sotto i riflettori gli scienziati e i loro necessari errori. Eccedere in questa scelta, magari nascondendosi dietro al decoroso tentativo di informare le masse, significa accettare un’innumerevole quantità di rischi, destinati con ogni probabilità a trasformarsi in una dura realtà che porterà la scienza a non essere considerata più attendibile.
Come già scritto in precedenza, epistemologicamente lo sviluppo scientifico si basa sulla produzione di continui tentativi e fallimenti. E allora, quanto può essere effettivamente utile continuare a mettere sotto i riflettori questi continui fallimenti? Quanta credibilità potrà continuare a vantare il mondo scientifico se continuiamo a condividere con le masse i suoi innumerevoli e legittimi ripensamenti?
Non è un caso se già nel Seicento, con la rivoluzione scientifica in corso, Francis Bacon scriveva che la scienza sarà un fattore di progresso solo se allontanerà da sé l’errore. I destinatari finali delle scoperte scientifiche non possono avere le stesse capacità di lettura dell’errore rispetto a chi fa di quell’errore uno stimolo per continuare a far meglio. È per questo che, per esempio, non tutti abbiamo la possibilità di raggiungere incredibili traguardi come la strutturazione della teoria cosmologica sull’inizio senza confini dell’universo. A mancare, non sono solo le basi teoriche, ma soprattutto la capacità di sfruttare il confronto accademico e la perseveranza che trasforma l’errore in un nuovo punto di partenza.
Per molti, la scienza non è altro che una serie di formule scritte da ricordare a memoria. Qualcosa di evanescente e di astratto, ma in realtà, la scienza è materia viva ed è dappertutto nel mondo. E allora, quanta insoddisfazione può generare la condivisione degli abbagli su un mondo, soprattutto quello attuale, diventato sempre più inospitale e avvelenato per l’essere umano?
Mi preme determinare che trovo giusto condividere con le più disomogenee comunità i risultati del sapere, quello che reputo meno giusto è condividere supposizioni che potrebbero ridursi a tutto e al contrario di tutto. Quello che i media stanno facendo è esattamente questo, rendere uomini di scienza meri opinionisti e intrattenitori.
Condividiamo un periodo storico in cui registriamo grosse avversità nel riuscire a comunicare fra noi nel tentativo di risolvere piccoli problemi quotidiani in modo costruttivo. l’intero mondo è ormai caratterizzato da un atteggiamento diffuso ad affrontare ogni problema con sdegno e insolenza, credendo di avere il dominio delle risposte prima ancora di aprirsi al confronto con gli altri. C’è davvero la necessità di coinvolgere gli uomini di scienza in questo pericoloso teatrino, trasformandoli in esibizionisti con lo scopo di intrattenere e, meglio ancora, atterrire le masse?
Per un ricercatore sapere che un approccio simile a quello che vorrebbe mettere alla prova è stato già verificato senza buon risultato, è una traccia che lo porterà più facilmente a cambiare metodo. È per questo che anche le ipotesi e i fallimenti hanno grande importanza nel settore scientifico, ma dal momento in cui escono dai laboratori rischiano di diventare molto pericolose e spesso inutilmente. Se si vuole parlare di scienza, soprattutto in un momento in cui il mondo intero, spinto da milioni di drammi diversi, aspetta delle risposte tangibili, occorre farlo in modo concreto. E invece, l’asserzione “credi ma verifica”, su cui si basa l’enorme avanzamento scientifico, oggi è messa gravemente in crisi da interessi di tipo economico o di popolarità, sia da parte dei ricercatori scientifici che dai talk show che li usano per registrare numeri ben diversi da quelli di cui avremmo realmente bisogno tutti.
Il risultato è che abbiamo smesso di credere alla scienza, verifichiamo poco e sappiamo ancora meno.
La pandemia mondiale può ricoprire un ruolo fondamentale nella riscoperta di valori etici e morali in grado di migliorare ognuno di noi, ma la sensazione è che si stia trasformando sempre di più in un’opportunità di business mondiale, e i sistemi di telecomunicazione non si stanno facendo scappare occasione di cavalcare l’onda. Spiace sottolineare come gli stessi comportamenti opportunistici siano utilizzati quotidianamente da più ricercatori scientifici. Molti di essi si sono sempre dedicati alla divulgazione del proprio lavoro, a cominciare da Galileo, al quale la Chiesa non perdonò proprio il fatto di aver scritto in volgare anziché nel più oscuro latino, ma in questo momento, essendo in ballo la vita di tutti, probabilmente la priorità non è ricoprire quanti più spazi televisivi possibile, ma trovare soluzioni e nel minor tempo possibile.
Lo scienziato non è un intrattenitore televisivo. I medici salvano le vite in prima linea nelle terapie intensive, non in radio. I paramenti utilizzati per proteggersi e impedire la diffusione del virus vanno rimossi per motivi molto più decorosi della notorietà, perché la gente è confusa da tutte le voci contrastanti e diffuse come fossero cori da stadio, e smetterà di credere nella medicina a vantaggio dei movimenti complottisti con la distorta soluzione a portata di “Like”.