Da dove nasce “la scatola di cuoio”?
“La scatola di cuoio” è un romanzo ambientato a San Clemente, un paesino nella Basilicata, e pubblicato da Fazi Editore.
Il tempo in cui si svolge la storia è ben definito: è la Basilicata della fine degli anni ’50, dove si seguono le vicende dei personaggi per quasi vent’anni. Succedono tante cose in vent’anni, le situazioni e i rapporti si ribaltano, ma nel racconto le persone sembrano rimanere le stesse, come anche i ricordi di quelle che non ci sono più. Ma cos’era la Basilicata a quel tempo, sessant’anni fa? “La Basilicata era una regione invisibile e San Clemente non era indicata sulla cartina geografica: si nascondeva, pigra e rassegnata all’abbandono” dice l’autore Gianni Spinelli, nativo di un paesino nell’area metropolitana di Bari, Noci, e quindi ben conscio delle piccole realtà del Sud di una volta.
Spinelli è caporedattore de “La gazzetta del Mezzogiorno” e autore di altri libri come “Settanta volte donna” (2014), una serie di interessanti ritratti femminili alle prese con un narratore sprovvisto; “Tutta colpa di Eva” (2017) ;“Andiamo al Cremlino” (2018) ; “Il gol di Platone”(2013), quest’ultimo accolto molto bene dalla critica e dai lettori.
Nel suo ultimo libro non si parla di questione meridionale o di emigrazione rovinosa per le regioni mediterranee o, almeno, non direttamente. Eppure, ci sono dei riferimenti alla realtà meridionale, reticenti e non, che rendono impossibile non dedicare un attimo di riflessione alla realtà di una terra che sembra non crescere. Infatti, nonostante l’arco cronologico in cui si inserisce il racconto sia dal 1959 al 1970, l’attualità nel descrivere alcuni scenari è spiazzante:
“I giovani erano scappati, rompendo tutti i contatti con quel paese che non offriva niente di niente, un maledetto posto di zombi”.
Chi sono i personaggi attorno alla scatola?
In questo scenario si svolge la storia di Antonio Fiorini, un impiegato presso lo studio di un ingegnere con la malcapitata sorte di finire in una famiglia dove non c’entra nulla, i Fontiuzzi. È la famiglia della moglie Margherita, composta dai suoi zii e dalle relative mogli e figlie: ognuno di loro farà uscire il peggio di sé nel tentativo di accaparrarsi la succosa eredità della zia Marta. “Donna Marta”, come viene definita nel libro, è un donnone avido e privo di sentimenti se non la brama di ricchezza, il cui aspetto era in grado di turbare chiunque e capace di qualsiasi nefandezza. L’ingenuo Antonio sarà l’unico a disinteressarsi dell’eredità, tant’è che quando gli viene data la possibilità di scegliere uno degli innumerevoli pezzi di mobilio della casa della zia, sceglie una vecchia scatola di cuoio, quella che proprio la zia Marta gli aveva descritto come un oggetto fuori dal comune, magico. Tanto Antonio quanto il lettore si chiedono cosa possa mai contenere questa scatola di tanto eccezionale, ma solo uno dei due rimarrà “deluso” dalla risposta. E poi, da dove viene tutta questa ricchezza? Nessuno sa dirlo con certezza. Ma donna Marta, in ogni momento del matrimonio con suo marito Giuseppe, si era sempre accostata allo zio di questo, il ricco don Pantaleo. Il don è una presenza che rimane fissa e ostentata per tutta la durata del romanzo. La sua villa, quella che erediterà donna Marta, era teatro di lussuose cene e avvenimenti misteriosi, apparizioni di demoni che mai ci si aspetterebbero da un discepolo di Gesù. Questa rimarrà coronata da un alone di inquietudine, che ricorda un po’ il castello-fortezza dell’Innominato dei Promessi Sposi: “nessuno voleva visitarla o voleva ammettere di averla vista: paura, tanta paura”.
La vita del don procedeva tra donne, fiumi di vino e amici nella società dabbene, dove tutti desideravano entrare, ma la società di don Pantaleo e di san Clemente ha caste rigide e gli emarginati ne sono esclusi, in paradossale contrario al messaggio cristiano. Come i domestici Onofrio e Lina, vessati prima dal don e poi ancor più spietatamente da donna Marta, ma d’altronde “noi povera gente cosa possiamo fare? Obbedire e stare zitti.” Il caso dell’eredità mancata ai Fontiuzzi è l’avvenimento più chiacchierato a San Clemente, dove le notizie sono per lo più inventate e dove si sa tutto di tutti.
Infatti, tutti i personaggi meritano un nome e un cognome: è uno dei tratti originali di questo romanzo, che assegna anche ai personaggi più marginali, quelli che non si rincontrano più dopo neanche una pagina, nome e cognome. Il nome e il personaggio mi sembrano collegati da un rapporto di necessità: il don, presenza altisonante, ha diversi nomi: “il Provinciale”, don Pantaleo e Domenico Vincenti all’anagrafe. Invece, la sua succuba serva, ha nome e cognome anonimi e bisillabi: Lina Spini. Dopotutto sin dalle prime pagine è presentata una fitta rete di parenti e nomi, così presenti e ingombranti nella vita di chi ne ha tanti e vicino a sè, come accade spesso al Sud.
Perchè leggere “La scatola di cuoio”
Da provinciale e meridionale non possono che farmi tenerezza gli sprazzi di vita paesana, come le donne “bizzoche” sempre a messa, il chiacchiericcio, la cultura del cibo: c’è anche la spiegazione di alcune ricette come intermezzi agli eventi, nei dialoghi dei personaggi. Ma soprattutto, quello a cui si appresta il lettore è un mondo intriso di credenze e folklore, che lasciano poco spazio alla razionalità e che spingono a credere e sperare nelle azioni dei santi o di entità soprannaturali (il diavolo o la “iella”) più che nella propria. Un mondo che non va rinnegato, ma ricordato nel suo superamento: solo sapendo da dove siamo partiti possiamo sperare di progredire ancora.
“La scatola di cuoio” è un chiaro esempio di commistione fra generi: possiamo dire che appartiene alla narrativa generale, ma ha forti elementi di un romanzo giallo, di uno erotico e tratti ora del fantasy, ora del romanzo storico (si cita lo sbarco sulla luna del ’69: a san Clemente ce l’avevano tutti la televisione per vederlo?).
Abbiamo vissuto l’amore e il mare in tutte le sfumature con i libri più chiacchierati di settembre. Ora troviamo a fine ottobre la voce di un libro che è quella di un linguaggio piano, scorrevole e a tratti colorito, protagonista di colpi di scena che tengono il lettore col fiato sospeso e facendogli chiedere, come genuinamente dovrebbe accadere con un buon libro, “chissà cosa succederà dopo?”
Francesca Santoro