La Roma di Virginia Raggi: una questione di genere

Roma di Virginia Raggi

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La nomina di Lorenza Fruci, neo assessora alla Crescita Culturale del comune di Roma, è stata oggetto di non poche discussioni e perplessità.

Fruci precedentemente ricopriva l’ incarico di delegata della Sindaca per le Pari Opportunità con un mandato esplicitamente volto all’ «indirizzo e controllo politico in ordine alle progettualità afferenti lo sviluppo delle politiche di genere per la promozione dei relativi diritti, per l’accoglienza e il sostegno alle donne»: in occasione dell’ultimo rimpasto della Giunta Comunale, è stata invece chiamata a sostituire Luca Bergamo, che si era mostrato critico nei confronti della ricandidatura di Virginia Raggi.

Questa scelta è stata da molti interpretata come esemplare della volontà da parte della Sindaca di costruirsi attorno un Comitato elettorale estremamente fedele, dato anche il percorso travagliato di composizione della sua Giunta: questo è infatti il diciassettesimo cambio di assessore, che va sommato a quello del capo di gabinetto, ai due del vicesindaco e ai numerosi tra i vertici delle municipalizzate Acea, Atac e Ama.

Fruci sembrerebbe essere infatti legata alla Sindaca da un rapporto risalente ai banchi del Liceo: elemento che, insieme alla sua passione per il Burlesque, ha rappresentato materiale prezioso soprattutto per quegli esemplari nella variegata specie del giornalismo la cui la sopravvivenza è tanto più garantita quanto si riesce ad assicurare un livello scandalosamente basso di dibattito pubblico.

C’è però anche un altro elemento che potrebbe aver determinato questa scelta e su cui forse vale maggiormente la pena riflettere: data la sua precedente nomina, infatti, possiamo immaginare che, secondo l’opinione della Sindaca, Lorenza Fruci rappresenti un elemento valido e sensibile per quanto riguarda le politiche di genere.

Assegnarle un incarico di considerevole importanza, potrebbe forse quindi anche rappresentare un tentativo orientato alla volontà di riacquistare credito per quanto riguarda il suo operato in questo campo, più volte aspramente e giustamente criticato.

Ma quali sono gli elementi che garantiscono la validità oggettiva di queste critiche? Esiste forse un’unità di misura della responsabilità dell’amministrazione di una città nei confronti di questo tema?

Sicuramente ciò che maggiormente ci si avvicina è la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”, nota come la “Convenzione di Istambul”.

Assumendola come strumento di giudizio dell’impegno della Sindaca sull’argomento, possiamo osservare che Roma risulta lontanissima dal raggiungimento di quegli obiettivi: il Consiglio d’Europa, ad esempio, indica come misura sociale minima la presenza di un posto letto ogni diecimila abitanti da mettere a disposizione per le donne che iniziano un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

A Roma (che vanta una popolazione di circa 3 milioni di persone) ce ne sono circa 25. Di questi, più della metà sono messi a disposizione dalle realtà autorganizzate della “Casa Internazionale delle donne” e di “Lucha y Siesta.”

La prima trova la sua sede nel 1987, quando diverse esponenti del movimento femminista romano occupano la parte seicentesca del complesso monumentale ed ex reclusorio femminile “ Buon Pa-store”, rivendicandone la prevista destinazione all’associazionismo femminile e dando inizio ad una lunga trattativa con il Comune per il restauro e l’assegnazione dello stabile.

Nel 1992 l’indiscutibile valore di quell’esperienza figlia della cittadinanza attiva viene riconosciuto ufficialmente e La Casa Internazionale delle Donne viene aggiunta all’elenco delle opere di Roma Capitale e approvata dal Comune.

Ad oggi, questo luogo ospita una segreteria organizzativa, una foresteria, un centro congressi e, prima che l’emergenza sanitaria lo rendesse impossibile, eventi teatrali e musicali di altissima qualità. Tutto dalle e per le donne.

Lucha y Siesta nasce invece nel 2008 con l’occupazione e il recupero di una palazzina in disuso di proprietà dell’Atac, anche in questo caso da parte di un gruppo di attiviste femministe: la sua na-tura è ibrida tra quella di una casa rifugio, un centro antiviolenza e un polo laboratoriale e di ela-borazione politica.

Queste realtà, paradossalmente, sono entrambe state coinvolte nel tempo in numerosi contenziosi con il Comune a guida Raggi, con annesse sospensioni delle utenze, minacce di sgombero e richieste di saldamento di debiti di enormi proporzioni.

Recentemente, ad esempio, le donne e i minori residenti a Lucha y Siesta sono stati identificati dalle forze dell’ordine nel cuore della notte. Se l’episodio è stato molto criticato e giudicato imbarazzante anche dalla Regione Lazio, non ci sono state invece alcune dichiarazioni in merito da parte del Comune.

Non aver reso vita facile a queste realtà si è rivelata una scelta poco lungimirante per Virginia Raggi da ogni punto di vista: persino quella frangia di elettorato pronta ad esultare alle notizie di avvenuto sgombero di occupazioni illegali, non è a realtà come queste che immaginano di fare riferimento quando le invocano.

Dall’altra parte, ovviamente, nessuno ha mancato di sottolineare quanto queste decisioni risultassero ancor più deludenti perché prese dalla prima sindaca di Roma, al punto da domandarsi se il clamore sarebbe stato lo stesso qualora non lo fosse stata.

Ma è legittimo criticare in maniera particolare una politica se sposa scelte discutibili nei confronti delle donne della città, proprio in quanto donna?

E volendo ampliare il discorso, è legittimo aspettarsi da una certa figura politica qualcosa a partire da ciò che è e da ciò che rappresenta? (Non solo da quanto afferma o pensa, quindi, ma dalla sua biografia e identità.)

Operati come quello di Virginia Raggi dovrebbero invece forse convincerci che la presenza o meno di donne ai vertici della politica istituzionale non dovrebbe rappresentare un elemento così rilevante per chi ha a cuore la questione di genere, a discapito dei temi?

In una democrazia l’identità della classe politica è il frutto della società che si autorappresenta: l’assenza o la presenza nelle istituzioni di alcune caratteristiche umane è la cartina tornasole della condizione in cui queste si trovano da un punto di vista di comprensione sociale.

Che la politica affronti argomenti legati ad una certa categoria, infatti, non è assolutamente considerabile un elemento sufficiente. Se questa notte il nostro paese subisse un’invasione di locuste, la politica sarebbe costretta non solo a parlarne, ma ad integrare esperti in maniera, a legiferare in merito e persino a interrogarsi sui loro diritti.

Questo rappresenterebbe forse alcun passo avanti in merito a una fantasiosa istanza di parità sociale tra gli insetti e il resto dei cittadini? Per poterne parlare realmente, bisognerebbe attendere quantomeno la prima presenza di uno di loro all’interno di un consiglio municipale.

Fino a quel momento infatti, le questioni politiche legate a quello specifico corpo sociale potranno essere immaginate, analizzate e le disparità affrontate o persino limitate: quel che è certo però, è che non potranno dirsi sconfitte.

Operati deludenti come quello di Virginia Raggi non devono quindi spingerci a considerare irrilevante il dato della presenza di donne al governo delle nostre città mentre cerchiamo di sondare lo stato di avanzamento del nostro Paese relativamente alla questione di genere. Dovrebbero piuttosto rappresentare un prezioso promemoria che ricordi ad elettori ed elettrici che votare una donna non è sufficiente, ma soprattutto a chi è votata che è chiamata ad una responsabilità decisamente più imponente della sua carica, qualunque essa sia: quella di utilizzare al massimo il potere che le è stato assegnato per contribuire ad abbattere la più antica e radicata tra le numerose forme di disparità e sottomissione che la Storia ha potuto osservare, fino ad oggi.

E quando si tratta di Storia, possiamo forse accettare che Roma si sottragga?

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