Il pesciolino nero
Tranquillo e felice nuotò a filo dell’acqua dicendo tra sé: sarà possibile che la morte mi venga a cercare, ma io non le andrò incontro: vivrò felice quanto potrò e se sarò costretto ad affrontarla non avrà importanza. Quello che conta saranno gli effetti che la mia morte o la mia vita avranno avuto sugli altri.
Quello appena riportato è un passo della fiaba iraniana Il pesciolino nero, dalla penna del docente e attivista Samad Behrangi. La fiaba narra di un pesciolino che un giorno decide di abbandonare il ruscello in cui è nato. Nonostante le preoccupazioni della mamma e degli amici, il pesciolino è disposto a rischiare la vita per esplorare il mondo fuori.
Questo racconto ha a che fare con la rivolta in Iran attualmente in corso per due motivi. Il primo è che il suo autore fu vittima della monarchia persiana nel 1968. In quanto militante di sinistra – quindi contro la dinastia – annegò nel fiume Aras, al confine con l’ex Unione Sovietica. Nonostante la smentita dell’ufficiale dell’esercito presente sul luogo al momento dell’annegamento, è ritenuta certa la responsabilità della monarchia. Il secondo motivo è la fiaba in sé, che può essere considerata descrizione accurata delle proteste. Non è possibile anticipare l’esito finale di questa ondata di dissenso, ma certamente le quasi 500 morti stanno avendo effetti significativi.
Farian Sabahi
La fiaba de Il pesciolino nero è stata riportata dalla giornalista, docente, iranista, islamologa e storica contemporanea Farian Sabahi. Ieri mattina si è tenuto un incontro presso l’Università “La Sapienza” di Roma (Dipartimento di Filosofia) dal titolo Con la rivolta delle donne in Iran. L’incontro, inserito nel contesto del “Seminario permanente in filosofia, studi di genere e pratiche delle differenze”, ha voluto dare spazio ad una voce autorevole in materia, per analizzare la situazione attuale del Paese. L’esperta ha infatti proposto un’analisi dei motivi e degli obiettivi che la protesta si pone, dando spazio anche a riferimenti personali. Sulla scorta di due suoi lavori, Storia dell’Iran. 1890-2020 e Noi donne di Teheran, il cuore dell’incontro è stata la riflessione intorno all’uso della violenza.
Gli ultimi sviluppi delle proteste
I punti cruciali della rivolta in Iran analizzati da Sabahi, nel corso di una discussione che ha coinvolto anche professori e studenti, sono stati principalmente tre.
Primo: lo sciopero
Oggi si concluderà lo sciopero di tre giorni, con il ritrovo dei manifestanti in piazza Azadi (che in persiano significa “libertà”). A protestare contro il governo, il cui presidente attualmente è Ebrahim Raisi, sono studenti e commercianti. La scelta di quella piazza è significativa, dato che è stato scenario per la celebrazione dei 40 anni dalla Rivoluzione islamica (1° febbraio 1979). Il 7 dicembre in Iran si celebra inoltre la “giornata dello studente”, occasione per cui dovrebbe essere in programma un discorso del presidente Raisi. La conclusione dello sciopero, con tutta probabilità, non arresterà le proteste nel Paese. Nonostante il suo vigore, questo non sembra in grado di infliggere colpi significativi all’economia del Paese.
Secondo: la polizia morale
Di notevole rilevanza è poi la notizia risalente a un paio di giorni fa, che riportava l’abolizione della polizia morale, la “Gasht-e Ershad”. L’apparato governativo è stato istituito proprio dopo la nascita della Repubblica, per volontà dell’ayatollah Khomeini, rientrato in patria dopo 14 anni di esilio. Il suo obiettivo è ancora oggi il rispetto dei codici di abbigliamento in particolare per le donne, che devono indossare correttamente il velo (hijab) e nascondere la propria figura con il chador. Farian Sabahi ha messo ordine tra le notizie contraddittorie a riguardo. Innanzitutto l’attività della polizia morale è notevolmente diminuita dall’inizio delle proteste. Il motivo è per il timore che le camionette bianche con la striscia verde orizzontale – facilmente riconoscibili – venissero prese di mira dai manifestanti. Il problema principale è che la notizia della sua abolizione non è stata confermata da nessuna dichiarazione ufficiale. A questo va aggiunta la traduzione della formula utilizzata dal procuratore generale (ultraconservatore) Montazeri: è “sospensione”, non “abolizione”. Questa dichiarazione sul velo, quindi, secondo l’iranista, potrebbe essere solamente un modo per allentare la pressione sul governo, mostrando all’Occidente una disposizione all’ascolto delle rivendicazioni popolari.
Terzo: il ricatto economico
Nel corso dell’incontro, Sabahi riporta una notizia d’agenzia di pochi secondi prima (e confermata qualche ora dopo): l’uso di ricatti economici contro le manifestanti. Uno dei mezzi del governo per dissuadere dalla partecipazione è infatti il blocco dei conti correnti delle donne che si ribellano all’obbligo del velo. Sfruttando le telecamere istallate per le strade di Teheran, è possibile agire direttamente sui beni delle partecipanti. Le donne in Iran sono emancipate ed indipendenti, quindi, a differenza di quello che si potrebbe pensare, possiedono conti correnti autonomi. Questa misura in particolare, sottolinea Farian Sabahi, è dimostrazione del fatto che la ribellione contro l’obbligo del velo non è più la questione centrale.
Le proteste, sorte dopo la morte di Mahsa Amini, non puntano solo all’eliminazione dell’hijab, ma si oppongono ad un regime che si avvicina più ad una dittatura che ad una repubblica. Insorgono contro le speranze tradite della Rivoluzione del 1979, che non nacque con uno stampo specificatamente religioso.
Il rischio di una Repubblica militare
L’intensità della rivolta iraniana è sicuramente un segnale della spaccatura interna nella leadership religiosa del Paese. Da un lato, chi vorrebbe (parzialmente) tendere l’orecchio alle richieste della società civile – al fine di mantenersi al governo – dall’altro, chi vuole proseguire con la linea dura.
Sabahi mette in guardia rispetto ai possibili epiloghi delle manifestazioni, identificando quattro possibili scenari. Uno: la macchina repressiva continua senza esitazioni, proseguendo con il ciclo di arresti (fonti governative ne stimano 15mila, ma potrebbero essere addirittura il doppio). Due: si avranno minime concessioni, ma non l’abolizione del velo, dal momento che sarebbe un cedimento politico troppo forte. Tre: le proteste continuano come nel 1979 (durate 12/13 mesi) per causare una spaccatura nella struttura del consenso di Khomeini. Quattro: i pasdaran (i “guardiani della rivoluzione”) riescono in un colpo di stato contro la leadership religiosa.
È quest’ultima ipotesi che maggiormente preoccupa Sabahi. Un possibile rischio sarebbe la presa di potere da parte del corpo militare istituito dopo la Rivoluzione. In questo caso la situazione cambierebbe sulla carta ma non nella pratica: si passerebbe cioè da una repubblica religiosa ad una militare. I principi e obblighi rimarrebbero sostanzialmente gli stessi, in aggiunta alla presenza – attualmente molto invasiva – negli affari pubblici.
Rivoluzione o rivolta in Iran? Una questione di categorie
A conclusione dell’incontro Farian Sabahi si è interrogata insieme all’uditorio sulla questione puramente filosofica delle categorie politiche. Nel contesto in cui si è svolto il seminario è infatti rilevanti chiedersi se la protesta in Iran sia una rivolta o una rivoluzione.
Una rivolta implicherebbe solamente un cambio ai vertici del Paese. Il risultato rischia infatti di essere solo un cambio dei leader, che si impegnerebbero allo stesso modo nella negazione delle istanze dei manifestanti. Se invece si dovesse trattare di una rivoluzione si avrebbe un ribaltamento completo degli equilibri iraniani. Un possibile smantellamento del sistema politico che porterebbe – forse – all’istituzione di una democrazia, o per lo meno all’affermazione delle richieste di maggior libertà che già echeggiavano nel 1979.
Che sia rivolta o rivoluzione sarà solo il tempo a dirlo. Ciò che è indubbio è invece l’anima femminista di queste proteste. Una rivendicazione in primis dei diritti delle donne, la volontà di slegarsi da una società che continuamente limita la libertà e ostacola la completa autodeterminazione. Istanze femministe che trovano l’appoggio di donne e uomini disposti a battersi, a sacrificarsi, a scendere in piazza contro l’oppressione, perché «Quello che conta saranno gli effetti che la mia morte o la mia vita avranno avuto sugli altri».