A voler pensare male, sembrerebbe essere la confusione l’elemento regnante nel mondo del calcio che proprio non si rassegna a questa cosa chiamata pandemia da Covid-19.
La doccia gelata rifilata ieri dal ministro dello sport Vincenzo Spadafora al mondo del pallone, per mezzo dei comodi spazi del Tg2, ricorda le ambasciate dei tempi delle elementari, quando per dire qualcosa all’amata si mandava un legato, di solito il compagno di banco.
“Oggi non do per certo né la ripresa del campionato né degli allenamenti il 4 maggio” la sentenza lapidaria del ministro pentastellato che dribbla l’ostacolo nemmeno fosse Totti.
Frasi buttate lì, quasi distrattamente, con la certezza che chi deve intendere intenderà.
E infatti ha inteso benissimo il presidente della FIGC Gabriele Gravina, che solo il giorno prima spingeva per una ripresa del campionato “responsabile”.
Dopo aver ricordato l’indotto generato dal calcio in Italia, circa 5 miliardi di euro all’anno, prospettato un modello organizzativo che preveda partite nei soli stadi del centro sud, il numero uno della federazione ha candidamente ammesso che, lui, il ruolo del “becchino del calcio” lo lascerebbe volentieri a qualcun altro.
IL VOTO
E qui entra in gioco l’Assemblea di Lega svoltasi nella mattinata di martedì 21 in cui, all’unanimità, tutti e venti i club di serie A si sono detti favorevoli alla riapertura “responsabile ecc.”.
Tutti, anche i presidenti di Brescia e Torino, al secolo Massimo Cellino e Urbano Cairo, i più strenui difensori dell’annullamento della stagione in corso.
Notizia che, a pensarci bene, non desta nemmeno troppa sorpresa se si pensa al numero di milioni di euro in ballo. Tanti, troppi, tra diritti televisivi, sponsor, annessi e connessi.
Del resto, come ripetuto in ogni dove da chiunque abbia del buonsenso o una buona faccia da attore, “il calcio ora è l’ultimo dei problemi”. Magari il penultimo per tutti quei lavoratori che, esclusi dalla cerchia degli iper milionari, campano col calcio come campa un impiegato qualsiasi.
È bene inoltre ricordare che il calcio non è solo Serie A e che la sua chiusura ad oltranza, senza sostegno né programmazione, comporterà probabilmente la scomparsa di una miriade di realtà di livello inferiore.
LA SPINTA DELL’UEFA
Una partita che ovviamente non si gioca solo dentro le mura di casa nostra.
Ha un bel daffare anche il massimo organo europeo, la Uefa, che nel corso di una conference call con i rappresentanti delle 55 federazioni che riunisce sotto al proprio logo ha diramato una ‘forte raccomandazione’ affinché si portino a termine i calendari dei rispettivi campionati nazionali, per giunta non oltre le date che verranno indicate al termine del Comitato esecutivo previsto per giovedì 23 aprile (si pensa il 3 agosto).
Comitato da cui dovrebbero scaturire, qualora si optasse per la ripresa, anche le date delle finali di Champions League (29 agosto) ed Europa League (tra mercoledì 26 e giovedì 27 agosto).
LA FRENATA DELL’OMS
Braccio di ferro, o tiro alla fune, che si protrae anche fra organizzazioni che fino ad ora avevano poco da spartire.
Secondo la rivista specializzata brasiliana Veja, che è riuscita a intercettare uno dei partecipanti alla riunione tenutasi il 16 aprile tra l’Organizzazione Mondiale della Sanità e rappresentati della Uefa, l’Oms avrebbe caldamente raccomandato all’organo calcistico europeo di “sospendere le competizioni internazionali” almeno fino “alla fine del 2021”.
Premettendo che in alcun modo le considerazioni dell’Oms possono vincolare la scelta dell’Uefa, che sembra appunto determinata ad andare verso la riapertura, il parere del massimo organismo in fatto di salute in un momento come questo non può essere sottostimato.
Una conference call che sarebbe dovuta durare poco più di un’ora e ha sforato le due ore e mezza, senza per altro che si giungesse ad alcun tipo di intesa.
Tra i punti più controversi ci sarebbe la relazione della società di consulenza Kpmg che stimerebbe in 4,1 miliardi di euro le perdite per le cinque maggiori federazioni europee qualora si decidesse di non procedere con la ripresa dei campionati.
Nemmeno a parlare di cosa accadrebbe senza Champions League ed Europa League il prossimo anno, con le società che dovrebbero reinventarsi senza i ricchi premi in palio. Tradotto: rigorosi tagli alla voce spesa.
QUESTIONE DI RIMPALLI
Tornando alle faccende squisitamente italiane, pare chiaro il rimpallo tra politica del calcio e politica ‘politica’.
Non che ci sia molta distanza con la realtà di fuori, dove le Regioni prima invocano autonomie al limite del secessionismo per poi battere cassa al centralissimo stato quando le cose precipitano.
Tra Gravina e Spadafora è tutto un reciproco rimando della serie “specchio riflesso” (per restare nel candore dei giochi infantili). Un brutto spettacolo in cui l’unica cosa evidente è la mancanza, tanto da una parte quanto dall’altra, di una leadership forte e decisa e che sappia prendersi non dico tutte, ma almeno qualche responsabilità.
“Vogliamo essere trattati alla stregua di tutti gli altri settori d’impatto socio economico”, tuona il presidente FIGC Gravina, mentre passa la patata bollente al cauto Spadafora che riecheggia: “Quando il mondo del calcio non vuole decidere o non vuole farlo per motivi economici dice che è il governo che deve farlo. Quando poi il governo interviene a gamba tesa rivendica la sua autonomia”.
I CONTI NON TORNANO
Chi di sicuro riaprirebbe anche domani, a costo di giocare la finale delle finali nella palestra di un liceo pubblico qualsiasi, sono le società i cui conti già ballavano prima di questa sciagura.
Ne sa qualcosa la As Roma, una delle tre società italiane quotate in borsa, insieme a Lazio e Juventus.
La mancata cessione del club da parte dell’avvocato statunitense James Pallotta al connazionale Dan Friedkin, causa coronavirus, non ha certamente giovato al club capitolino, al netto di costi, ricavi e debito, quello messo peggio del terzetto.
Oltre all’ovvia svalutazione del brand a causa della pandemia attuale, la società giallorossa necessita di una ricapitalizzazione di almeno duecento milioni di euro per dare ossigeno alle casse.
La Juventus, quella più colpita dai mancati introiti derivanti dal lockdown, che vanno ad insistere su una situazione debitoria già accentuata, ha usufruito dell’aumento di capitale da 300 milioni di fine 2019 ed è corsa ai ripari con un accordo con i propri tesserati per un taglio netto degli stipendi degli ultimi tre mesi della stagione calcistica, che ha permesso alla società sabauda di recuperare 90 milioni di euro entro la data del 30 giugno.
Alessandro Leproux