Negli ultimi anni, in Europa, con l’aumento dei flussi migratori, è tornata di stringente attualità la questione dei confini nazionali e l’impegno dei governi nel difenderli. Anche l’Italia ha optato per una riarticolazione securitaria delle proprie politiche migratorie, sostenuta dall’attuale governo Meloni, con la speranza di poter comprimere un fenomeno estremamente complesso entro i limiti angusti dell’equivalenza del potere nazionale, enfatizzando esclusivamente l’elemento della “lotta” nel contrasto all’immigrazione non desiderata. Questo modo di affrontare il problema ha contribuito ad alimentare un pericoloso gioco a somma zero tra i paesi destinatari delle pressioni migratorie in cui a vincere è il governo più autoritario e intransigente.
Il dibattito politico contemporaneo testimonia la crescita di un fenomeno
tutt’altro che inatteso anche nel nostro Paese: il ritorno di una domanda sociale di protezione dei confini nazionali e nei confronti della mobilità umana indesiderata, diventata una priorità pressoché assoluta. Anche per l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, la riarticolazione securitaria delle politiche migratorie in Italia ha sempre rappresentato la risposta più efficace per stroncare sul nascere il famigerato pericolo d’invasione, attualmente non confermata dai dati, e della contestuale sostituzione etnica, qualsiasi cosa essa significhi per l’attuale maggioranza di governo.
Pertanto, in questo anno di governo, pur di archiviare il prima possibile il tedioso dossier migranti, l’esecutivo Meloni pare non abbia avuto alcuna remora quando si è trattato di scegliere tra la Costituzione e la propaganda, optando pragmaticamente per la seconda. Poco importa se questo sabato il tribunale di Catania ha sentenziato che i decreti meloniani vanno contro la carta costituzionale italiana e contro le direttive Ue. Dopo l’oltraggioso verdetto, dal Viminale hanno già annunciato ricorso mentre da Fratelli d’Italia hanno risposto accusando la “magistratura ideologizzata”.
Per capire come sia potuto accadere tutto ciò, è bene tenere presente che alla base di questo atteggiamento estremamente selettivo e autoritario nel gestire i flussi migratori, non solo nel nostro Paese ma in diversi stati europei, vi è quasi sempre la tendenza a considerare lo stato come riferimento assoluto del potere per la difesa dei propri confini, senza distinguere se il pericolo è però reale o fittizio.
I (falsi) timori securitari che dominano il management migratorio
I timori derivanti dall’impatto dei fenomeni migratori sulla sicurezza interna
hanno una lunga storia della quale fanno parte anche gli episodi legati al contrasto delle infiltrazioni anarchiche nell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti a cavallo tra ’800 e ’900, così come le diffidenze ricorrenti nei confronti dell’attivismo politico delle diaspore attraverso i confini nazionali.
Negli anni più vicini a noi, l’inquadramento degli arrivi dal mare come un’emergenza, o una crisi di proporzioni mai viste prima, a dispetto dei numeri effettivi, ha portato le opinioni pubbliche e i governi a derubricare il tema dei flussi migratori come una questione emergenziale e securitaria, pur distinguendo tra una versione più difensiva e una più umanitaria del fenomeno migratorio. Fenomeno, sostanzialmente stazionario, almeno per quanto riguarda l’Italia, visto che dal 2010 circa, i rifugiati e richiedenti asilo nel nostro Paese rappresentano non più del 5% dei residenti.
Eppure, l’idea vittimistica di un’Italia lasciata sola da un’Europa sorda e indifferente, malgrado un’incidenza dei rifugiati sulla popolazione residente pari a circa 3,5 per 1.000 abitanti, contro i 25 della Svezia, i 14 della Germania, i 6 della Francia, è un argomento ricorrente e trasversale del discorso pubblico soprattutto in campagna elettorale. Il fatto che nel nostro Paese, come nel resto d’Europa, l’immigrazione sia prevalentemente femminile, europea e proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana, non riesce a far presa sul senso comune delle persone; mentre l’opinione pubblica continua a farsi stregare da certa retorica politica pronta a dipingere il migrante come un nemico della patria da marginalizzare e criminalizzare.
Se il nemico non esiste, basta crearlo
La logica della difesa territoriale ha implicato nel tempo un interesse a mantenere il controllo sui propri confini nazionali, sotto tre aspetti: la sovranità interna,
di cui la capacità di sorvegliare le frontiere è una delle manifestazioni salienti,
mentre l’incapacità di monitorarli è un tratto degli Stati in fallimento; l’autonomia westfaliana, ovvero la capacità di regolare i propri affari interni senza interferenze
esterne, inducendo i governi a concepire le politiche migratorie come un’area
decisionale in cui preservare la propria autonomia; e infine, la gestione delle interdipendenze con l’esterno, che giustifica la scelta di determinate politiche fortemente autoritarie nella gestione ordinata dei flussi transfrontalieri, tra cui quelli delle persone.
E’ sulla base di questo eccesso di stato-centrismo, che anche in Italia si è finito con il considerare i flussi migratori via mare, fenomeno strutturale da almeno trent’anni, alla stregua di un evento bellico da fronteggiare anche con misure speciali: dalla detenzione amministrativa (fino a un anno e mezzo), alle cauzioni da migliaia di euro, fino a misure che rischiano di intaccare i diritti dei minori sanciti da leggi nazionali e Convenzioni internazionali.
Negli ultimi anni, questa immagine alterata della realtà è stata supportata dalle tante operazioni di vigilanza internazionale dei confini per il contrasto di possibili infiltrazioni di terroristi che hanno fornito una potente giustificazione ai governi desiderosi di adottare politiche migratorie sbilanciate sul versante securitario, nonostante gli scarsi riscontri fattuali di legami tra gli sbarchi e gli attentati sul suolo europeo.
Ma ciò che ha fortemente facilitato la diffusione del management securitario nelle politiche migratorie in Europa è stata ovviamente la dimensione esterna degli accordi internazionali. L’unione Europea ne è oramai protagonista da anni insieme agli Stati nazionali, anche a costo di sostenere governi dai dubbi standard democratici (si pensi all’Ungheria del grande alleato di Meloni, Viktor Orban) e di pagare un prezzo in termini di credibilità nella protezione dei diritti umani e nel rispetto delle convenzioni internazionali sull’accoglienza dei rifugiati.
In termini di architettura dei regimi di mobilità, nell’ambito dell’UE, l’obiettivo di una politica migratoria comune ha raggiunto pochi risultati e tutti parziali come per esempio l’elaborazione di norme anti-discriminatorie, mentre l’attenzione dei governi e delle istituzioni comunitarie si è concentrata soprattutto sull’agenda securitaria del controllo dei confini. E’ in quest’area che la cooperazione tra gli Stati membri è stata infatti molto efficace come dimostrano la crescente importanza, l’elevata autonomia e i cospicui fondi attribuiti all’agenzia Frontex in questi anni.
La trappola degli accordi semplificati
In Italia, la riarticolazione securitaria delle politiche migratorie ha prodotto non solo la sistematica criminalizzazione delle attività di ricerca e soccorso portate avanti dalle ONG nel Mediterraneo, ma anche attraverso i famosi Memorandum d’intesa con Paesi terzi (tutti nord-africani) incaricati di impedire le partenze di barconi verso le coste italiane. Come dimenticare il Memorandum d’intesa con la Libia, l’accordo
Italia-Niger del 2017 e il Codice di condotta delle ONG impegnate
nel salvataggio in mare. Sempre nella stessa cornice s’inseriscono anche il Decreto Sicurezza del ministro Salvini (Dl 113/2018, convertito in Legge 132/2018) e l’attuale Memorandum d’intesa tra l’Ue e la Tunisia di Kais Saied.
La sottoscrizione di questi accordi preliminari con Paesi ritenuti ingenuamente affidabili se non addirittura “amici”, ha fatto emergere le reali intenzioni dell’Italia nell’evoluzione degli obiettivi delle missioni di salvataggio in mare a tutela del diritto alla vita dei migranti. Ad esempio, rispetto a Mare Nostrum (18 ottobre 2013 – 31 ottobre 2014), le successive Triton (dal 1 novembre 2014) e Themis (dal 1 febbraio 2018) oltre al forte depotenziamento di risorse economiche messe a disposizione, hanno registrato uno spostamento dell’enfasi dagli obiettivi umanitari di soccorso dei migranti a quelli di controllo delle frontiere esterne, di contrasto all’immigrazione irregolare e d’individuazione delle minacce terroristiche.
Dal 2015 ad oggi, l’impegno dello Stato italiano nella gestione delle operazioni di salvataggio si è strategicamente ridotto, per via delle politiche di ripartizione delle responsabilità nello spazio europeo, mentre è cresciuto il contributo fornito dalle ONG nelle azioni SAR nel Mediterraneo centrale nonostante i tentativi di ingerenza da parte della politica.
Le tensioni di questi giorni tra Roma Berlino dopo la decisione del governo tedesco di finanziare le ONG impegnate del salvataggio dei migranti nel Mediterraneo per portarli anche in Italia, hanno evidenziato ancora una volta come l’impiego coordinato dei dispositivi di comando dell’opinione pubblica, messi in atto dal governo italiano, fossero finalizzati ad accompagnare e sostenere l’emanazione di provvedimenti in chiave autoritaria e antiumanitaria.
Dopo che nella giornata di ieri, la presidenza spagnola dell’Ue ha trovato un compromesso con la Germania per sbloccare il patto sulle migrazioni, il governo meloni ha rilanciato appellandosi a un paragrafo che chiarisce che le operazioni umanitarie non rientrano tra le «strumentalizzazioni dei migranti» e ha congelato la stretta di mano sul dossier.
In questi mesi estivi di grande affluenza sul fronte sbarchi, la strategia comunicativa del governo italiano ha sempre cercato il coinvolgimento emozionale dell’opinione pubblica (paura, rischio, risentimento) che agisce, sia nella funzione di legittimazione delle misure adottate e nella rappresentazione dei risultati conseguiti (sicurezza, controllo), sia nella costruzione simbolica del problema (invasione, business della migrazione) ma, soprattutto, nel consolidamento della configurazione generale del regime interpretativo dei fenomeni migratori contemporanei (chiusura neo-sovranista, richiamo ai temi della ricostruzione dell’identità nazionale, della minaccia per la sicurezza, l’ordine pubblico e gli equilibri economici, demografici e culturali), con la speranza di trovare nuove sponde dagli alleati delle destre europee per capitalizzare anche il tema dei migranti.