Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
La resistenza passiva di Hong Kong si è manifestata chiaramente domenica 10 dicembre, quando solo il 27,5% degli aventi diritto ha partecipato alle elezioni “patriottiche” imposte da Pechino.
Domenica 10 dicembre i cittadini di Hong Kong, chiamati alle urne per esprimere un voto “patriottico” secondo le indicazioni di Pechino, hanno reagito in modo chiaro. Si è infatti registrata l’affluenza più bassa da quando, nel 1997, la ex colonia britannica è stata restituita alla Repubblica Popolare Cinese.
I dati sono significativi. Solo il 27,5 per cento degli aventi diritto ha deposto la scheda nell’urna. Se si rammenta che nel 2019, dopo le grandi manifestazioni anti-cinesi, la percentuale era stata invece del 71,2%, con una vittoria schiacciante delle forze politiche democratiche, è facile capire che gli abitanti della città-isola hanno reagito alle imposizioni delle autorità scegliendo una forma di resistenza passiva. Che, del resto, è l’unica possibile nel plumbeo clima di repressione che ha preso il posto della precedente libertà di voto (peraltro mai completa) durante ila transizione dal governo britannico a quello cinese.
In realtà gli hongkonghesi non avevano alcuna libertà di scelta. I candidati votabili erano tutti, per usare il linguaggio di Pechino, “patriottici”, vale a dire fedelissimi al Partito comunista e al suo capo Xi Jinping. Non andando a votare hanno quindi fatto capire, una volta di più, che non gradiscono vivere in quel tipo di regime. Si tenga anche conto del fatto che tutti i leader della protesta anti-cinese sono ormai fuori gioco. I più fortunati sono riusciti a fuggire. E’ il caso, per esempio, di Agnes Chow che ora vive in Canada.
Intervistata da Nikkei Asia, l’attivista pro-democrazia ha detto che i cittadini di Hong Kong hanno dimostrato, con un’astensione così massiccia, di non voler partecipare a elezioni fasulle che di democratico non hanno nulla. Sperano così di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sull’attuale situazione della ex colonia.
Speranza non molto realistica, dal momento che il mondo niente ha fatto per impedire alla Cina di praticare la sua violenta repressione, tradendo anche la promessa dello schema “un Paese, due sistemi” formulata ai tempi di Deng Xiaoping. Il fatto è che, nella Repubblica Popolare, non esiste spazio per alcun tipo di dissenso, anche minimo.
Quanto agli attivisti democratici che non sono riusciti a lasciare in tempo la città, nulla si sa della loro sorte. Tranne che sono rinchiusi nelle carceri cinesi oppure avviati alla “rieducazione” ideologica in uno dei tanti “laogai”, i campi di concentramento del regime.
Nel frattempo si sta svolgendo il processo contro il 76enne Jimmy Lai, fondatore dell’ultimo giornale libero della città, “Apple News”, poi soppresso dalle autorità locali su input di Pechino. Colpa di Lai è aver appoggiato le proteste pro-democrazia.
E’ comunque importante che i cittadini di Hong Kong trovino ancora il modo di far trapelare il loro dissenso. Nonostante i funzionari fedeli a Pechino abbiano esercitato grandi pressioni per indurli a votare, fino a prorogare l’orario di chiusura delle urne elettorali.