La rabbia delle donne

la rabbia delle donne

Oggi le donne si arrabbiano di più. È quanto dice un’analisi del 2022 della BBC: stando ai risultati, a provare più rabbia è il genere femminile, fatto che crea quello che è stato definito un “gender rage gap”. Se si considera la situazione di erosione dei diritti delle donne in atto negli ultimi anni, non è un dato che stupisce. Ma come è stata vista storicamente la rabbia delle donne, e quali sono le potenzialità della sua espressione?

Un’interpretazione dei dati del Gallup World Poll del 2022 elaborata dalla BBC mostra che, rispetto a dieci anni fa, c’è una maggiore divergenza tra donne e uomini per quanto riguarda la rabbia. Le prime, infatti, hanno dichiarato di provarla più spesso, con un divario del 6% rispetto al genere maschile. Questa situazione, stando ai dati raccolti, è diventata particolarmente evidente con l’inizio della pandemia, quando il carico di stress e disagio è aumentato per molte di loro, che hanno dovuto assumersi una quantità maggiore del lavoro domestico, oltre al loro impiego. Esternare questo sentimento, però, è un discorso a parte.

La rabbia delle donne e la sua espressione

Storicamente, la rabbia femminile è stata considerata un’emozione problematica. Da un lato, esprimerla è stato visto come un modo per asserire la propria volontà e personalità e, in quanto tale, una prerogativa degli uomini (specialmente bianchi). Quello che la società si aspetta dalle donne è che siano tranquille, educate, gentili: qualunque cosa succeda, devono moderare i toni e non urtare i sentimenti altrui, specialmente – non sia mai – quelli maschili. Questa modalità di socializzazione va a penalizzare tutte le donne, ma specialmente quelle razzializzate, transgender e queer, come ricordò la femminista americana Audre Lorde nel suo discorso del 1981 alla National Women’s Studies Association Conference, dove affrontò il problema del razzismo interno al movimento:

La mia paura della rabbia non mi ha insegnato nulla. Anche la vostra paura di questa rabbia non vi insegnerà nulla.

Dall’altro lato, invece, esternarla può essere visto come una conferma di uno stereotipo ancora radicato, quello di una “maggiore emotività” del genere femminile. In questo caso, il sentimento viene percepito come un sintomo di scarso equilibrio e mancanza di autocontrollo. Entrambi questi punti di vista possono portare le donne a evitare di esprimere la propria rabbia in modo da non incorrere in punizioni sociali, come lo scherno e il non essere prese sul serio. Basti pensare allo spauracchio della femminista arrabbiata, che è sempre stata rappresentata come qualcuno da evitare, sicuramente non da imitare. Ma forse è il caso di cominciare a rivendicarlo, che siamo femministe. E anche arrabbiate, già che ci siamo.

Il ruolo della vittima

Viviamo in una società dove il solo ruolo che le donne possono assumere di fronte alla negazione dei loro diritti è quello della vittima, possibilmente una vittima silenziosa, che non fa chiasso, che non rivendica una propria agentività. In questo modo viene garantito loro un riconoscimento, che però va ad alimentare e rinforzare una costruzione della condizione femminile come sofferenza necessaria. Come spiega la femminista e attivista Mona Eltahawi, ci viene ripetuto dalle pubblicità e dalle serie tv che possiamo essere e fare tutto quello che vogliamo in un mondo che ribadisce chiaramente, giorno dopo giorno, di non essere disposto a rimettere in discussione le strutture di potere e le disuguaglianze che lo caratterizzano.

Per un uso politico della rabbia

In un periodo di erosione dei loro diritti su scala globale (casi emblematici sono la situazione in Iran, ma anche le crescenti restrizioni all’accesso all’aborto negli Stati Uniti e in Russia e le proposte al riguardo – come l’ascolto del battito cardiaco del feto – portate avanti dalle associazioni anti-abortiste italiane, la scarsità dei fondi per i centri antiviolenza e il divario retributivo di genere), la rabbia delle donne ha la possibilità di diventare una risorsa importante da canalizzare nell’attività politica. Per rivendicare una dignità e una soggettività che agisce per cambiare lo status quo, per affermare le proprie idee e affermarsi sul piano personale e sociale. Oltre gli stereotipi e le imposizioni del patriarcato.

Ci siamo stancate di essere gentili.

Martina Bassanelli

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