Cinquanta, cinquanta è il numero di giorni che ci separa dal voto per la Casa Bianca.
Meno di due mesi, all’interno di una campagna elettorale dai toni sempre accesi e dalle idee radicalmente opposte, relativamente alla concezione del mondo e di cosa gli Stati Uniti dovranno essere da qui in poi.
Una demagogia politica utilizzata in maniera differente, dal discorso rivelatore di Michelle Obama, appassionante e commovente al contempo, agli attacchi a salve il più delle volte del candidato più controverso con cui gli USA abbiano dovuto confrontarsi e che nonostante ciò accumula consensi, nella sua sconfinata sfrontatezza da “outsider”.
Quanto è successo oggi, l’esplosione a New York, il ritrovamento di un’ulteriore ordigno rudimentale che ricorda, stando alle fonti, quello della strage di Boston, non ha potuto fare a meno di scaldare sempre più gli animi e accendere la polemica nonché la dialettica antitetica che separa l’espressione che ognuno dei due candidati potrebbe dare, al domani del voto, all’America.
“Aspettiamo i risultati delle indagini”, Hillary Clinton.
“Dobbiamo essere molto duri”, Donald Trump.
La candidata dei democratici è riflessiva, misurata, in un discorso che lascia ampio spazio alla concretezza tiene conto del criterio legale dell’indagine, nella considerazione del fatto che ad operare non debba necessariamente essere il terrorismo internazionale, ma talvolta delle cellule isolate.
Trump, sfacciato come siamo stati abituati a vederlo in questi mesi, nel bel mezzo di un discorso elettorale in Colorado, ha catturato l’attenzione generale con un richiamo patriottico all’unione e alla vigilanza, alla durezza.
“…È davvero terribile quello che sta succedendo nel mondo e nel nostro Paese, dobbiamo essere duri, intelligenti e vigili e metteremo fine a tutto questo.”
Così il motivo demagogico della paura diviene centrale nuovamente ai fini del voto.
Ma non è una novità. Gli attacchi insistenti nei confronti di Obama avevano già palesato il motivo alla base della dialettica politica del candidato repubblicano (popular, più che puramente repubblicano), attacchi per altro ingiustificati nella considerazione dell’impossibilità da parte del presidente statunitense di parlare liberamente o darsi a considerazioni del tutto personali prima che siano state condotte, concluse e accertate delle indagini. Il Presidente ha le “mani legate” dall’FBI e Donald lo sa, ma lo ignora abilmente perché nulla ha più presa sul pubblico che l’utilizzo degli eventi ignorati a proprio vantaggio.
E se ignorantia non excusat nella valutazione del discorso “repubblicano”, la diversa prudenza dialettica della Clinton, all’interno di un’élite che di democratico ha ben poco, si mostra come sempre misurata e coerente al ruolo politico che si candida a ricoprire.
La diplomazia politica che si contrappone alla sboccata demagogia della paura once again.
Ma detto ciò, l’effetto che questa notte avrà sulla campagna elettorale e il conseguente voto è tutto un mistero.
Basti pensare alla perdita di consensi che la strage di Orlando costò a Donald Trump, dopo la durezza pubblicamente palesata. Com’è tuttavia anche vero che è la paura quel collante che lega forse di più gli animi, specie se all’interno di una situazione instabile e, di fatto, tutto fuorché controllabile.
Così, al domani delle polemiche scatenate sulla rete dopo la puntata del Tonight Show che ha visto il candidato repubblicano protagonista, in un siparietto con il conduttore Jimmy Fallon, e le critiche annesse rispetto all’ “umanizzazione di un possibile dittatore”, si riapre il nodo voto con sempre più dubbi a sé annessi.
Certo è che l’esito del voto del prossimo 8 novembre sarà tutto meno che scontato, tra operai fan del miliardario populista e intellettuali apertamente schierati sul fronte democratico, che continuano a richiamare all’attenzione e alla riflessione la cittadinanza americana.
Una battaglia all’ultima parola.
Di Ilaria Piromalli