Il romanzo La quarta compagna di Orsola Severini, pubblicato da Fandango Libri, è ispirato a una storia vera. La protagonista, realmente esistita e che qui prende il nome di Ada Castelli, ha condotto una vita all’insegna della lotta. Romanzo che rende omaggio a tutte le donne combattenti che hanno fatto sentire la propria voce senza paura, rivendicando i propri diritti durante il regime fascista. Donne che non hanno svolto solo il ruolo di mogli e madri ma che hanno manifestato, a costo di perdere tutto.
Ada Castelli: una donna che ha lottato in nome della giustizia
Il romanzo, raccontato in prima persona dalla stessa Ada, si apre con la protagonista all’età di 81 anni. Ormai anziana, inizia a ripercorrere gli anni che hanno caratterizzato la sua gioventù, per niente facile, tra manifestazioni, lavoro, gestione della famiglia, torture e tanto coraggio.
Prima di raccontare, si pone fin da subito una domanda:
«Quella coraggiosa, pazza e incosciente, che ha rischiato tutto per la sua idea, che ha preso un sacco di botte, che è stata mille volte sul punto di essere ammazzata ma che l’ha sempre scampata, chi era?».
È il 23 giugno 1978, vive con Ivana, una signora che ha conosciuto quando era giovane, la quale è diventata la sua compagna per la vita, un’amica fedele che l’ha salvata in tutti i sensi. Anche se gli anni più bui e duri della sua esistenza sono terminati, li porta ancora con sé non solo dentro il suo cuore ma anche come segni indelebili e cicatrici sulla propria pelle. A notarlo è una bambina di nome Adriana, figlia della sua vicina Laura, alla quale aveva promesso di aiutarla con le lezioni di piano. Come sappiamo, i bambini sono puri e molto attenti ai particolari, motivo per cui Adriana non può fare a meno di notare i tagli sulle mani di Ada e il dito rotto. Da quel momento inizia il suo racconto, facendo un tuffo nel passato nonostante l’età ormai avanzata.
Milano 1927, si trovava in bagno a casa di suo padre, mentre stava gettando nello scarico le copie del giornale L’Unità. Intanto, la pubblica sicurezza aveva fatto irruzione, intimandole di uscire e scandendo queste parole:
«Adesso spiegherete al giudice cosa ci facevate con una cinquantina di copie di un giornale clandestino che incita alla pubblica insurrezione, e con i ritratti di Lenin e quest’altro comunista attaccati al muro».
L’avevano finalmente presa, non era più costretta a nascondersi e seminare ogni volta i fascisti. Da quell’episodio si susseguirono una serie di interrogatori, accompagnati da pugni, calci e schiaffi. Se questi erano i trattamenti che riceveva da parte della polizia, con i fascisti c’erano stupri e torture. Veniva chiamata comunista, e come punizione le avevano spezzato l’anulare sinistro. Ma lei non mollava, si ripeteva che doveva resistere e che non poteva tradire i suoi compagni. Pur essendo fortemente convinta di ciò che aveva fatto, doveva rinnegare una parte di sé, ossia sembrare ai loro occhi una poveretta, un’operaia che distribuiva qualche copia de L’Unità.
Ripeteva quasi allo sfinimento:
«Ammazzatemi pure, violentatemi mille volte, spezzatemi tutte le ossa. Non mi potete fare niente. Io il dolore più grande lo conosco già. Non ho niente da perdere. Posso morire, oggi, in questo istante, non mi importa. Io sono già morta».
Lei, come tante altre donne, era stata accusata di essere comunista, e la colpa era stata quella di essersi allontanata dalla propria natura, e di aver iniziato a fare politica, trascurando la sua famiglia. Era diventata una resistente e non se ne rendeva conto. Come poteva lei, militante operaia, riuscire a sovvertire un’intera dittatura? Manifestare in piazza o scioperare era un conto, ma compiere una tale rivoluzione era del tutto diverso.
Resistenza e fascismo
La parola fascismo evoca in tutti noi dei ricordi per niente piacevoli, essendo stato un movimento politico di estrema destra fondato da Benito Mussolini nel 1919. Movimento che estese tutto il suo potere in modo totalitario e dispotico in Italia, governando l’intero paese. Ada conosceva bene il fascismo, perché del resto lei aveva combattuto in questi anni. Per lei il fascismo non era un’ideologia, ma un modo di rapportarsi al mondo. Il fascismo giustificava l’ingiustificabile, si basava sulla legge del più forte, ma significava anche lottare non per la giustizia ma solo in nome dei propri interessi.
In questo romanzo, Ada sottolinea come lei abbia fatto parte di questa Resistenza, pur sapendo che poteva essere qualcosa di estremamente pericoloso. Infatti, precisa come “la gente pensa che la mia attività di resistente l’abbia svolta combattendo col fucile in mano. Invece io la Resistenza ho cominciato a farla portando in giro un fardello pesantissimo da un capo all’altro della città. Al ritorno, ogni volta cambiavo percorso, prendevo il primo tram che passava e, dopo qualche fermata, scendevo, attraversavo la strada e ne prendevo un altro nella direzione opposta fino al capolinea. E via così per almeno un paio d’ore”.
Anche se era una semplice operaia, stava partecipando a qualcosa di veramente grande, e lei lo sapeva.
Come è nato questo romanzo?
L’autrice Orsola Severini spiega come sia nato il desiderio o, per meglio dire, il dovere di scrivere un romanzo così importante e per niente facile. Le sue parole sono state molto chiare:
«Nel 2021 si è celebrato il centenario del Partito comunista italiano ed è stata l’occasione per ricordare l’importante ruolo che ha giocato nell’antifascismo e nella Resistenza. Sono rimasta subito colpita dal fatto che si parlasse quasi esclusivamente dei dirigenti maschi del Partito, tralasciando il fondamentale ruolo delle donne e delle persone comuni nella lotta per la Liberazione».
Severini ha scoperto Ada Castelli, nome fittizio, grazie alla lettura de I matti del Duce di Matteo Petracci. Tra le diverse storie raccontate è presente anche quella di Ada. Da quel momento, si è accesa una luce in Severini e ha deciso così di portare sotto i riflettori la storia di questa donna, cambiando però nomi e luoghi, usando anche l’immaginazione di fronte a qualche lacuna delle fonti storiche.
Una storia che rende omaggio a tutte le donne combattenti, che non hanno avuto paura di rinnegare il proprio operato, nemmeno sotto tortura e minaccia.