Durante il regime fascista, Mussolini ha promosso la creazione di un’uniformità linguistica per rafforzare il nazionalismo e il consenso. Sono stati introdotti divieti, leggi e neologismi per ricostituire la purezza della lingua.
L’autarchia linguistica
Con autarchia linguistica si fa riferimento al tentativo di ristabilire la purezza della lingua italiana da parte del fascismo, Mussolini vedeva infatti la lingua come un importante strumento per costruire il consenso e l’italianità attraverso una continua battaglia culturale e politica. All’inizio del ‘900 l‘italiano non era una lingua diffusa, la maggior parte dei cittadini comunicava usando il dialetto o le lingue minoritarie. Per questo, in un discorso del 1931, Mussolini affermò di voler ricostituire la “purezza dell’idioma patrio” per riunire gli italiani sotto la stessa lingua, aumentando la coesione nazionale attraverso la ristrutturazione del repertorio linguistico italiano. Come evidenziato da Eugenio Salvatore, nel convegno Il fascismo, i dialetti e l’italiano le disposizioni imposte dal regime furono effettivamente in grado di influire sul linguaggio, costruendo una nuova architettura delle parole.
I mezzi di comunicazione di massa sono stati importanti veicoli di diffusione delle disposizioni: radio, cinema e fotografia si occupavano attivamente delle questioni intorno alla lingua. Nella terza pagina del Corriere della Sera trovavano spazio interventi e dibattiti sull’italiano e relativi alla linguistica per indirizzare l’opinione pubblica, celebri quelli di Alfredo Panzini, storico collaboratore del giornale. L’autore aveva anche un programma radiofonico La lingua d’Italia dove aveva modo di spiegare agli italiani il significato o la pronuncia di alcuni termini. Panzini ebbe un ruolo fondamentale nella “bonifica della lingua italiana”, fu nominato Accademico d’Italia nella classe di lettere grazie alla redazione del Dizionario Moderno che lo portò a essere uno dei maggiori esperti in neologismi e italiano contemporaneo. Egli tuttavia invitava i riformatori della lingua a evitare abusi, mantenendo posizioni più moderate rispetto ad altri intellettuali del tempo come Torquato Gigli o Paolo Monelli.
Le minoranze etniche
Le minoranze etniche erano gruppi considerati, per motivi linguistici, culturali e storici, estranei alla nazione; il gruppo comprendeva le regioni, caratterizzate da elementi culturali e linguistici slavi e tedeschi, annesse nel primo dopoguerra e le zone che subivano l’influenza linguistica di altri paesi, come la parte francofona della Val d’Aosta. Mussolini vedeva nell’italianizzazione delle minoranze etniche uno strumento per costituire un’omologazione culturale e politica, per questo istituì norme volte a diffondere la lingua italiana in ambito scolastico, lavorativo, sociale. Con la Riforma Gentile, nel 1923, l’Italiano fu imposto come l’unica lingua ufficiale di insegnamento e in quelle regioni furono soppressi gli organi di stampa francesi o tedeschi. Si favorirono le migrazioni di funzionari italofoni in Alto Adige e Val d’Aosta per diffondere la lingua e dal 1923 tutti gli atti giudiziari o burocratici furono, per legge, redatti in italiano. Nello stesso anno anche la toponomastica fu coinvolta nel processo di italianizzazione: si ordinò che tutti i toponimi tedeschi fossero sostituiti o da traduzioni italiane, o da antichi nomi di origine romana o medievale, o se presenti, da toponimi italiani. Particolarmente colpita dal fenomeno fu la regione dell’Alto Adige, dove ad esempio Sterzing divenne Vipiteno o Kurtinig, Cortina.
I neologismi
Per raggiungere l’ideale autarchia linguistica durante il regime fascista furono emanate leggi per proibire forestierismi e vennero redatti nuovi dizionari per introdurre termini nuovi che sostituissero le forme lessicali impure: i calchi linguistici, i gallicismi o gli anglicismi. Come evidenziato da Salvatore, le disposizioni del regime per la costruzione di una lingua pura hanno comportato una vera e propria guerra contro queste forme linguistiche. La convinzione alla base era che per le parole di derivazione straniera ostacolassero il raggiungimento di quell’identità politica e culturale ideale e che fosse necessario eliminarle per ritornare alla purezza della lingua originaria. Anche i dialetti erano considerati un impedimento alla formazione di una cultura nazionale perché potevano alimentare spinte regionalistiche e per questo furono estromessi dalla scuola, dalla stampa e da altre forme culturali come il teatro.
Durante il fascismo avvenne una vera e propria guerra contro le parole, che vennero cancellate e sostituite. Era vietato esporre insegne contenenti nomi di derivazione estera, usare termini importati o anche chiamare i neonati con nomi stranieri. Infatti anche i nomi propri furono messi al bando, Panzini sul Corriere racconta di aver letto su un giornale romano: “il nome fa parte della personalità di ogni individuo. Chi sente il bisogno di camuffarsi all’inglese, alla francese e via dicendo è segno che si vergogna di essere italiano”. Così, con i toponimi, anche i nomi privati stranieri furono messi alla gogna: basti pensare al caso della cantante Wanda Osiris che, per le direttive emanate da Achille Starace durante il fascismo, fu rinominata Vanda Osiri.
Il lavoro delle accademie
Durante il regime fu redatta una lista contenente più di 1500 parole considerate non italiane che trovarono una sostituzione in una forma più tradizionale. Alcune delle sostituzioni del regime ebbero fortuna: un tempo si diceva per esempio chaffeaur al posto di autista o sandwich per tramezzino, parola introdotta da D’Annunzio. Ci furono casi di sostituzioni che oggi sembrano grottesche, come la proposta, citata da Eugenio Salvatore, di sostituire il termine sport con diporto oppure dessert con fin di pasto.
La Reale Accademia d’Italia che iniziò la sua attività nel 1929 ebbe un ruolo fondamentale nelle operazioni volte a ricostruire la purezza della lingua. L’ascesa dell’Accademia, che sostituì l’Accademia dei Lincei di cui era malvista l’autonomia, ha consacrato la fine della secolare attività dell’Accademia della Crusca. Con il Regio decreto dell’11 marzo del 1923, citato da Elisabetta Benucci nel convegno, era finita infatti la sua storica attività lessicografica. Il Decreto, firmato da Giovanni Gentile, prevedeva l’interruzione delle attività di compilazione del vocabolario, da quel momento gli accademici iniziarono a dedicarsi esclusivamente alla promozione dell’italiano e agli studi filologici. Il nuovo ordinamento dell’Accademia sanciva la fine della sua autonomia e l’intenzione di indirizzarla al soddisfacimento dei bisogni della nuova cultura nazionale.
La Reale Accademia d’Italia divenne così la massima istituzione culturale del Regime e Mussolini stesso commissionò agli accademici un nuovo vocabolario, il Vocabolario della lingua italiana. Fu inoltre affidato loro il compito di definire i sostituiti italiani delle parole da bandire, per questo fu istituita la Commissione per l’Italianità della lingua che si occupava di fornire l’elenco dei termini considerati dei forestierismi e le alternative italiane.
L’eredità linguistica del fascismo
Guardando la lista proposta dalla Commissione per l’italianità ci sono molti termini che sono entrati nel nostro vocabolario, tuttavia, come evidenziato dall’Enciclopedia Treccani, i tentativi di ricostruire la purezza della lingua non hanno mai fermato la diffusione dei prestiti o dei calchi. Le cause rilevate sono diverse: il prestigio di termini di altre culture, la consuetudine dei parlanti o la disomogeneità della propaganda. Nel 1940 Umberto di Savoia abolì la legge che, dal 1940, vietava i prestiti linguistici, rilegittimando l’utilizzo di parole derivate dall’estero; dal 1939 fu reintrodotta anche la possibilità di chiamare i neonati con nomi non italiani. Non è comunque possibile calcolare precisamente quanti sostituti siano sopravvissuti perché alcune forme circolavano già prima delle disposizioni fasciste.
Il fascismo ha con le sue politiche sicuramente limitato la diffusione delle lingue minori e dei dialetti, ma dalla liberazione i parlanti hanno tentato di ristabilire le condizioni che precedevano il regime; la diglossia è sempre rimasta diffusa. Sicuramente, come sostenuto da De Mauro, il fascismo ha sfibrato i dialetti a causa dei ripetuti attacchi, ma non li ha soppressi. Negli anni successivi alla Liberazione la diffusione dei dialetti era ancora molto alta, essi sono stati messi in crisi dall’unificazione linguistica che è avvenuta grazie all’avvento della televisione e all’aumento del livello medio di istruzione negli anni ’80 del 900 e, oggi, sembrano essere in via di estinzione.