La prostituzione in Italia dal Quattrocento al Settecento

Se la prostituzione è “il mestiere più antico del mondo”, durante la sua storia sarà ben successo qualcosa… Di questo si sono occupati Romano Canosa e Isabella Colonnello, scrivendo il saggio Storia della prostituzione in Italia. Dal Quattrocento alla fine del Settecento (2004, sapere 200 edizioni multimediali).

“Il dibattito di Socrate con Aspasia” (1800), di Nicolas-André Monsiau.

Fino alla metà del Trecento, rimase in vita il convincimento che la prostituzione

 

 

 

 

 

“fosse offensiva della religione, nociva per la buona fama delle città e fonte di immoralità per i cittadini” (p. 13).

Solo lentamente questo atteggiamento si attenuò, lasciando spazio alla creazione di postriboli: luoghi in cui il meretricio potesse essere esercitato sotto il controllo delle autorità cittadine. Ma rinchiudere la prostituzione fra quattro mura fu tutt’altro che facile…

 




A Firenze e a Venezia, in particolare, si affermarono sistemi meno rigidi. Nel 1403, fu istituito l’Ufficio dell’Onestà, che dispose l’apertura di postriboli pubblici, reprimendo contemporaneamente le pratiche omoerotiche maschili. In teoria, la presenza di donne pubbliche avrebbe dovuto distrarre i maschi dalla “sodomia”. A Venezia, il confinamento del mestiere fu reso problematico dalle oscillazioni nei permessi e nei divieti di circolazione. Basti sapere che le lavoratrici del sesso, durante il Quattrocento, operavano tranquillamente in numerosi luoghi delle città.

 

Il Cinquecento vide la comparsa della cortigiana: colei che esercitava il mestiere in corti laiche ed ecclesiastiche, con uno stile di vita da gran dama.

“La spiegazione più seguita del fenomeno lo riconnette al tipo di struttura politico-burocratica propria del governo pontificio. Gli uomini che costituivano la burocrazia papale, in grandissima parte ecclesiastici, erano costretti al celibato […]” (p. 41)

A ciò si aggiunga che la diffusione della cultura umanistica e la presenza di chierici versati negli studi classici richiedevano intrattenitrici che fossero anche colte.

 

A Lucca, come a Firenze, fu particolarmente stretto il nesso tra la regolamentazione del sesso professionale e quella della “sodomia”. Nel 1440, si stabilì che esse potessero uscire dal bordello e andare dove volessero. Nel 1448, fu istituito un “Offizio sopra l’Onestà” che perseguisse i praticanti di omoerotismo maschile. Nel 1534, addirittura, fu introdotta la figura del “Protettore delle meretrici”: un magistrato che si sarebbe occupato delle querele sporte dalle prostitute per maltrattamenti subiti.

 

Ma… quando una donna poteva essere considerata “una del mestiere”? Essa impegnò e divise i migliori giuristi. A Bologna (e non solo), esisteva l’ “Ufficio delle Bollette”, che deteneva il registro apposito (“campione delle meretrici”). Oltre che al pagamento di una tassa, le professioniste dovevano sottostare a divieti di residenza (vicino a luoghi di culto, per esempio). L’Ufficio delle Bollette si occupava ampiamente della vita privata delle donne, soprattutto nubili che vivevano sole, o le separate dai mariti: categorie “sospette”. La documentazione bolognese riguarda soprattutto il Seicento.

 

Tra il XVI e il XVII secolo, si fece strada l’idea che le prostitute andassero “redente dal peccato”. Nacquero strutture di “sostegno” o “rifugio”, grazie a lasciti o donazioni private, perché vi abitassero non solo le ex-meretrici, ma anche le altre figure di “emarginati”. Questo sistema, però, presentava non pochi aspetti coercitivi.

 

“L’ideologia cattolica della prostituzione si era fondata per un tempo assai lungo su due testi di Aurelio Agostino e di Tommaso d’Aquino. Il primo considerava la prostituzione come un male necessario la cui eliminazione avrebbe potuto avere gravi conseguenze sull’ordinamento della ‘civitas’. Il secondo riproponeva le argomentazioni agostiniane, prendendo l’occasione da un riferimento di Aristotele alla ‘politeia’ degli spartani in tema di rapporti sessuali dei soldati. Per entrambi la prostituzione era ineliminabile dalla ‘civitas’ in quanto la garantiva dal pericolo di degenerazioni assai più ampie ed estese.” (p. 163)

Questa concezione cominciò a essere messa in dubbio verso la metà del ‘500, soprattutto da teologi spagnoli. Oltre ai pareri divergenti di testi biblici e Padri della Chiesa, c’era da considerare un dato di fatto: l’esercizio professionale del sesso non diminuiva affatto la licenziosità dei costumi.

“Fu su questo terreno che si verificò l’incontro tra questo pensiero e quello laico, incontro incerto all’inizio, ma destinato a sfociare […] in una regolamentazione generalizzata e nella erezione di una estesa rete di postriboli.” (p. 174)

 

Nella seconda metà del Settecento, il problema principale fu la sifilide. Ciò portò la regolamentazione del sesso a pagamento dal piano etico a quello sanitario. La polizia poteva così ordinare alle prostitute il ricovero in ospedale, come testimoniano le carte dell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano.

 

La storia della prostituzione nell’Italia preunitaria è dunque una vicenda di divieti e obblighi, con leggere differenze a seconda degli Stati e dei Comuni considerati. La questione davvero assente è quella dei diritti umani e della dignità personale. Ma è anche una storia di lotta tra leggi umane e leggi intrinseche ai fenomeni. Se le prime sono in grado di condizionare pesantemente la vita degli individui, le seconde hanno la meglio su chiunque. Cave Fatum.

 

Erica Gazzoldi

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