Uno studio svela i numeri del lavoro minorile nell’industria del cioccolato: solo in Ghana e Costa d’Avorio, sono più di 1,5 milioni i bambini impiegati nella produzione del cacao. E con la pandemia la situazione è precipitata.
Secondo uno studio del National Opinion Research Center (NORC) dell’Università di Chicago, la raccolta del cacao si poggerebbe in larga parte sul lavoro minorile. Solo in Ghana e Costa d’Avorio (responsabili di più della metà della produzione di cacao mondiale) sarebbero 1,56 milioni i bambini impiegati nelle piantagioni.
Da diversi anni i governi dei due Paesi hanno avviato politiche sociali volte al contrasto dello sfruttamento minorile, coinvolgendo anche associazioni umanitarie e le stesse multinazionali del cioccolato. La sinergia ha prodotto risultati solo parzialmente incoraggianti. A fronte di un aumento del 14% della produzione mondiale di cacao, registrato tra il 2014 e il 2019, il numero di bambini coinvolti nel processo è rimasto pressoché inalterato. Se è vero quindi che l’espansione dell’industria non ha prodotto, come sarebbe stato prevedibile, un’uguale espansione dello sfruttamento, è anche vero che non si è verificata quella contrazione del fenomeno che i governi e le associazioni avevano auspicato.
I rischi del mestiere
I 1,56 milioni di minori menzionati dallo studio hanno un’età compresa tra i 5 e 17 anni. La maggior parte lavora per i propri parenti, all’interno di piccole aziende a conduzione familiare, in contesti di grande povertà. Nelle regioni a più alta concentrazione di piantagioni di cacao, ben il 45% della popolazione minorile trova impiego in quest’industria.
Molti si dividono tra il lavoro e la scuola. Tra i fattori di miglioramento osservati dallo studio vi è infatti l’incremento della frequenza scolastica: dal 58% all’80% in Costa d’Avorio, dall’89% al 96% in Ghana nell’ultimo decennio. Anche il numero di ore settimanali dedicate al lavoro sembra essere diminuito.
Tuttavia, restano invariati alcuni dei problemi maggiori, come i rischi per la salute legati all’attività produttiva. La quasi totalità della manodopera minorile sarebbe infatti coinvolta in quello che l’Organizzazione mondiale del lavoro definisce “lavoro pericoloso”. Questo comporta l’impiego di attrezzi taglienti, il trasporto di carichi pesanti, il lavoro notturno e l’esposizione ad agenti chimici. Quest’ultimo fattore di rischio ha registrato una decisiva impennata negli ultimi dieci anni, in concomitanza con la diffusione sempre maggiore di pesticidi e fertilizzanti in ambito agricolo.
Gli effetti del Coronavirus sulla produzione di cacao
La pandemia ha aggravato notevolmente la situazione, vanificando anni di sforzi da parte dei governi africani. Uno studio dell’International Cocoa Initiative ha infatti mostrato come il lockdown parziale stabilito in Costa d’Avorio la scorsa primavera abbia prodotto un incremento pari al 21% del lavoro minorile nelle piantagioni di cacao. Alla base del fenomeno ci sarebbero la chiusura delle scuole e la restrizione della libera circolazione, che avrebbe causato una drammatica mancanza di manodopera agricola. La crisi economica seguita alla pandemia avrebbe inoltre costretto molte famiglie a impiegare i figli nel mondo del lavoro, pur di ottenere entrate aggiuntive.
Multinazionali sotto accusa
I dati raccolti dal NORC hanno provocato una nuova ondata di accuse nei confronti dell’industria del cioccolato, il cui operato in Africa era già da tempo al vaglio delle istituzioni europee e americane. A partire dal 2001, aziende come Mars, Hershey e Nestlé hanno a più riprese ribadito il proprio impegno nella lotta allo sfruttamento minorile, siglando accordi con i Paesi dell’Africa occidentale e le associazioni umanitarie. Obietto finale: ridurre l’impiego della manodopera minorile del 70% entro il 2020. Un risultato ampiamente disatteso, nonostante l’ingente investimento economico (circa 215 milioni di dollari) sostenuto dalle compagnie.
Il fallimento dell’impegno da parte dei grandi gruppi del cacao rivela l’incapacità dell’industria di formulare una visione strategica realmente incisiva. Le aziende sembrerebbero concentrarsi su una sostenibilità di facciata, propagandata tramite costose operazioni di marketing, piuttosto che investire quelle risorse nella lotta effettiva allo sfruttamento.
Certo, le multinazionali in molti casi non dispongo del controllo diretto delle piantagioni, limitandosi ad acquistarne il raccolto; ciò non elimina però le responsabilità etiche di un’industria che, insieme a molte altre, concorre in quel dissanguamento delle risorse africane ormai in atto da secoli. Secondo la Fairtrade Foundation, i coltivatori otterrebbero soltanto il 6% dei profitti totali della produzione e vendita del cioccolato. Quel prodotto, ottenuto a così caro prezzo, abbandona le loro terre e diventa ricchezza per altri. La trasformazione di intere regioni in vere e proprie monocolture di cacao riduce inoltre il potere economico degli agricoltori, costringendoli ad accettare qualsiasi condizione imposta dai grandi compratori esteri.
Le problematiche ambientali
La produzione di cacao comporta inoltre gravi rischi per l’ambiente. In Costa d’Avorio, la superficie delle foreste pluviali si è ridotta dell’80% dal 1960 ad oggi. Nelle aree protette del Paese si nascondono numerose attività illegali di raccolta del cacao, che concorrono alla distruzione dell’ecosistema. Il prodotto illegale viene poi mischiato a quello “pulito” e venduto alle aziende straniere, talvolta con il beneplacito delle stesse; rendendo di fatto impossibile un tracciamento sicuro dell’origine del cioccolato che acquistiamo quotidianamente.
Un problema lontano? Geograficamente, forse. Sotto il profilo etico, però, i problemi della filiera del cioccolato ci riguardano da vicino. E per un fatto semplicissimo: i Paesi europei sono i principali consumatori mondiali di cacao. Siamo proprio noi, insomma, il fine ultimo per cui si muove l’intero meccanismo.
Elena Brizio