La pratica del “gas flaring” tra spreco e inquinamento

gas flaring

Che cos’è il “gas flaring”

La traduzione italiana è letteralmente “combustione di gas” ed è una pratica in voga da anni. Adottata dalle maggiori compagnie petrolifere, il gas flaring consiste nel bruciare gas naturale “in eccesso”, che sarebbe altrimenti troppo oneroso da smaltire in maniera sostenibile. Capita, infatti, che nel momento in cui avviene una perforazione del sottosuolo per l’estrazione di petrolio, ci si imbatta in riserve naturali di gas. Il più delle volte si tratta di metano: questo dovrebbe essere estratto e trattato secondo procedimenti per limitare l’inquinamento dell’ambiente. Per motivi meramente economici, però, le industrie petrolifere scelgono di canalizzare questo gas in eccesso verso la cima della torre di perforazione. Qui viene combusto e si origina una cosiddetta “fiaccola”. Accanto alle compagnie petrolifere, ne fanno largo uso anche impianti chimici, quelli per l’estrazione di gas naturale e gli impianti di perforazione offshore.

Qualche numero

Tra i Paesi che fanno maggiormente affidamento a questa pratica, stando ai dati del 2011, ci sono Russia (27%), Nigeria (11%) e Iran (8%).

Le politiche ambientali – sempre più al centro del dibattito politico, economico e anche sociale – sono contrarie a questa “soluzione”, ma la tendenza non sembra invertirsi. Gli USA, ad esempio, nel 2011 si collocavano appena fuori dalla classifica presentata sopra con il 5% delle emissioni mondiali. A distanza di più di 10 anni e con l’intensificarsi della lotta delle associazioni ambientaliste, sembra però che nulla sia cambiato. Secondo uno studio americano di febbraio 2022 che considera le emissioni dell’anno 2019, la scelta del gas flaring è ancora molto radicata. La ricerca mostra come in 22 Stati sono presenti 2.652 torri di perforazione, che hanno prodotto un totale di 17,21 miliardi di m3 di anidride carbonica. Proseguendo nella lettura, si vede come le emissioni in questo ultimo decennio siano addirittura aumentate. Questo comporta quindi un rischio in primis per l’uomo: calcolatori utilizzati nella ricerca hanno infatti stimato il numero di morti causate direttamente da questa scelta. Nello scenario peggiore possibile – visto l’uso di più di un calcolatore – le morti attribuibili al gas flaring potrebbero essere 52, stando ai dati del 2019.

L’ambiente passa (come sempre) in secondo piano

Oltre ad avere effetti potenzialmente letali sull’uomo, la pratica altera anche gli equilibri di flora e fauna. Per quanto riguarda quest’ultima, le specie più colpite sono chiaramente uccelli ed insetti.

Per quanto riguarda la questione strettamente ambientale, i problemi sono principalmente due. Da una parte, l’inquinamento massivo dato appunto dalla combustione di miliardi di metri cubi di metano. Secondo la Gas flaring reduction partnership (GGFR), nel 2019 sono stati bruciati 150 miliardi di m3 di metano, che hanno a loro volta prodotto 400 milioni di tonnellate di gas serra. Per avere un’idea della portata di questo numero, basti pensare che equivale alle emissioni italiane totali del 2018 (fonte: ISPRA). Un altro confronto potrebbe essere in termini monetari: 150 miliardi m3 di gas bruciati equivalgono ad una perdita di 20 miliardi di dollari, quasi 19 miliardi di Euro.

Dall’altra parte, oltre ad essere un fattore di inquinamento che non si cura della salute del pianeta e dei suoi abitanti, rappresenta anche un enorme spreco. Il gas bruciato sarebbe infatti perfettamente utilizzabile per dare energia a case ed aziende. Sarebbe quindi uno sfruttamento – in questo caso in senso positivo – delle fonti energetiche (seppur fossili) a disposizione. Dato che l’industria del petrolio non sembra avere intenzione di abbandonare il campo, conviene allora evitare che le risorse vengano utilizzate completamente.

Il caso ENI

Quando si parla di grandi industrie petrolifere, non può non venire in mente ENI, protagonista spesso in negativo di notizie riguardo ambiente e inquinamento. È in effetti un procedimento standard per l’azienda, che (però) spesso si rende protagonista di pubblicità e iniziative per presentarsi sempre più “green” agli occhi dell’opinione pubblica. Nella realtà, è normale per la multinazionale mettere al primo posto i profitti piuttosto che l’attenzione per l’ambiente: le emissioni di metano tramite flaring rappresentano il 43% di quelle totali.

La BBC ha condotto un’inchiesta sul territorio iracheno, dove le aziende petrolifere con i più ampi stabilimenti sono ENI e BP. Secondo la legge locale, gli impianti per l’estrazione di petrolio devono stare almeno a 10 km dai centri abitati, ma in alcuni casi – come a Bressora – il gas viene bruciato a meno di 250 metri dalle case. Una distanza perciò insufficiente per garantire tanto la sicurezza quanto la salute della popolazione. Secondo un documento trapelato dal Ministero della Sanità iracheno, inoltre, tra il 2015 e il 2018 i malati di cancro sono aumentati del 20%. Questo perché le sostanze emesse durante la combustione del gas metano, monitorate per 2 settimane dagli esperti, sono di 4 punti sopra il limite fissato dal governo. Questo significa che nell’aria irachena di Bressora i livelli di benzene e naftalene sono sufficienti a giustificare l’innalzamento dei casi di tumore e leucemia infantile. Le due industrie, però, continuano ad agire indisturbate, in particolare nel sud-est del Paese, con il tacito benestare del governo.

Posta davanti alla questione dalla BBC, ENI ha respinto tutte le accuse. Secondo l’azienda quindi, la pratica del gas flaring da loro perpetrata non avrebbe nulla a che fare con lo strano innalzamento dei malati di cancro. Questa posizione viene quindi presa nonostante i numeri, le statistiche e le misurazioni oggettive – delle distanze tra centri abitate e impianti – dicano l’esatto opposto.

Dopotutto, non è mistero che l’azienda italiana si faccia portavoce di istanze ambientaliste e sostenibili solo per farsi pubblicità.

Alice Migliavacca

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