La politica della rabbia (Edizioni Nottetempo, 2021) di Franco Palazzi è un’esplorazione attenta e ricca di spunti su un’emozione troppo poco indagata e troppo facilmente delegittimata. La vita collettiva ha bisogno anche di questa scintilla esplosiva per scardinare le dinamiche oppressive che oppongono soggetti e comunità. Palazzi non si limita a proporre una riflessione teorica attorno agli usi politici della rabbia, ma fornisce anche diversi esempi di figure e movimenti che attraverso la loro vita o le loro azioni dimostrano le potenzialità di questo sentimento.
La politica della rabbia non si limita ad ammettere la possibilità che esistano circostanze in cui è legittimo arrabbiarsi, ma ambisce ad analizzare la rabbia come strumento di lotta collettivo e individuale indagandone la portata costruttiva come motore di cambiamento.
La rabbia non è uguale per tutti
Il punto di partenza della riflessione di Palazzi riguarda primariamente il soggetto della rabbia, prima ancora del suo oggetto. Riflettere sulla disparità fra la rabbia degli oppressi e quella degli oppressori è la prima ineludibile tappa dell’itinerario di questo testo. Una tecnica sottile per perpetrare questa asimmetria è il cosiddetto tone policing. Invece di invalidare le ragioni della collera si criticano le modalità di espressione, il tono, i gesti, la manifestazione della rabbia stessa.
La pretesa è che l’indignazione e le rimostranze di determinati soggetti vengano esposte pacatamente, senza alzare troppo la voce, senza passare dalla parte della violenza. Ciò di cui non si tiene conto è la gratuità e la sistematicità della violenza subita dalle classi o dai soggetti subalterni. Questi ultimi, quando ricorrono alla violenza, stanno reagendo a un sopruso o ad uno stato di cose ingiusto. La rabbia e la violenza degli oppressori contro gli oppressi è invece sempre ingiustificabile.
La rabbia degli sfruttati, degli invisibili, degli emarginati «costituisce un’inattesa presa di parola, la dimostrazione di una soggettività propriamente politica». Le vite costantemente calpestate rivendicano pubblicamente la loro dignità, affermando con forza che contano e hanno valore. In questo senso non solo la rabbia può essere politica, ma si può individuare una politica della rabbia come parte di una strategia non necessariamente distruttiva. La rabbia al contrario può portare con sé un’energia creativa, una forza propulsiva capace di resistere e allo stesso tempo costruire nuovi mondi.
La rabbia come malattia
Le classi dominanti hanno intuito molto tempo fa la portata sovversiva della rabbia. Basti considerare la “patologizzazione” a cui questo sentimento è stato sottoposto. Non solo perché (in diverse lingue) la rabbia indica sia un’emozione che una malattia. Ma anche per gli svariati tentativi di assimilare le manifestazioni di rabbia alla perdita momentanea o permanente della lucidità e del raziocinio accostandola all’espressione della follia.
Due esempi illuminanti sono la storia e l’etimologia dell’isteria (che deriva dalla parola greca per indicare l’utero) e la credenza che la schizofrenia fosse la “patologia della mascolinità nera arrabbiata”. Non a caso il femminismo e l’antirazzismo sono due movimenti che hanno saputo dare alla rabbia un significato nuovo, rendendola un potente strumento di lotta e di autodeterminazione.
Verso una balistica della rabbia
Palazzi individua la necessità di delineare una “tecnica della rabbia”, un metodo per valutare ed esaminare le diverse situazioni in cui la rabbia si trova ad esplodere. La balistica della rabbia sarebbe a tal fine la nozione più idonea a rintracciare le cause e le direzioni verso cui l’espressione collerica si rivolge e a comprenderne gli usi politici. Un tale approccio consentirebbe di indagare la rabbia in profondità e contribuirebbe a legittimarla come strumento politico di espressione e di sovversione. Ciò che è importante tenere a mente è che solo gli oppressi hanno piena legittimità nella scelta dello strumento di lotta.
L’esempio dei cinici
La filosofia ha trascurato il compito di indagare in profondità la politica della rabbia, relegando la collera allo status di passione negativa e quanto mai lontana dalla riflessione astratta a cui si dedica. Recuperando la tradizione antica, e in particolare quella cinica, si deve invece porre l’accento sul nesso inscindibile tra la prassi e la teoria. Nell’itinerario proposto dall’autore la rabbia è infatti tutt’altro che cieco furore distruttivo. La critica sociale messa a punto dai cinici si manifestava quotidianamente attraverso le loro stesse esistenze attraverso una «rabbia incessante eppure profondamente razionale».
Un’altra importante lezione da trarre dai cinici riguarda l’irriverenza, quell’atteggiamento che scardina l’accostamento tra rabbia e mestizia. Si può essere arrabbiati senza cedere ad uno stato d’animo costantemente cupo. Le proteste del movimento femminista Ni Una Menos sono un ottimo esempio di come la rabbia e l’euforia non debbano necessariamente correre su binari separati.
Rabbia come cura
Secondo Palazzi l’uso politico della rabbia rivela uno stretto legame con la dimensione della cura. In determinati contesti non è possibile relegare la rabbia a bieco nichilismo o caos devastatore. Così come non è legittimo apparentarla all’odio, che non crea nulla ma si alimenta nella staticità del negativo. Figure come Malcom X o Audre Lorde aiutano a comprendere come la rabbia tragga spunto non solo dalla cura di sé, ma anche dalla cura degli altri e del mondo.
L’osservazione di uno stato di cose sbagliato e ingiusto spinge alla rabbia coloro che si preoccupano per il mondo in cui viviamo.
È l’esatto opposto della passività e dell’incuria. In questo senso, il sentimento della rabbia può rivolgersi anche ai compagni di lotta e agli alleati senza confondersi con la critica o con l’attacco personale. Come dimostra l’analisi dell’opera di Valerie Solanas, c’è bisogno che la rabbia prenda forma a livello collettivo per diventare pienamente politica.
Giulia Della Michelina