Il romanzo La peste di Albert Camus era uno dei moltissimi classici con i quali avevo indefinitamente rimandato l’incontro. Sì, mi sarebbe piaciuto leggerlo. Ma non sembrava mai il momento giusto. Almeno fino ai primi di marzo, quando sono stata costretta a fare i conti con la gravissima epidemia in corso.
Di ritorno in Lombardia per quella che credevo sarebbe stata una breve visita ai miei genitori, ho acquistato La peste in una libreria di fiducia. Un po’ per le notizie preoccupanti che arrivavano da Bergamo e da Lodi, un po’ perché mi sembrava che nello sguardo delle persone qualcosa stesse cambiando. Avevo bisogno di comprendere quel vertiginoso principio di paura. E pensavo che il libro mi avrebbe fatto compagnia nel viaggio di ritorno in Liguria. Non immaginavo che il romanzo di Albert Camus, invece, mi avrebbe accompagnata nel tentativo di decifrare l’enigma del tempo che ci troviamo a vivere.
“Chiudete la città.”
Era il 6 marzo, verso sera. Avevo seguito il primo atto della tragedia raccontata da Camus, dalla moria dei topi nella tranquilla città di Orano ai primi casi di peste bubbonica. Il numero dei decessi cresceva rapidamente, così come la preoccupazione dei medici. Il prefetto cittadino aveva consultato la Capitale per avere indicazioni su come procedere. La risposta, laconica, mi ha dato un brivido lungo la schiena:
Dichiarate lo stato di peste. Chiudete la città.
Domenica 8 marzo la Lombardia veniva chiusa. Come molti Italiani, ho dovuto scegliere tra due case, tra due famiglie. La Liguria, con la mia compagna e i miei più cari amici, o la Lombardia, con i miei genitori. Poiché entrambi lavorano in un ambulatorio medico, ho scelto di restare – anche se con angoscia. E ho continuato a leggere La peste con il cuore in gola.
Col passare dei giorni, iniziavo a scoprire come si vive e come si ama durante un’epidemia tra le pagine del romanzo e la realtà. Lo scenario di Camus, infatti, assumeva contorni sempre più spaventosamente esatti.
Una delle conseguenze più vistose della chiusura delle porte fu infatti l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affrontare una separazione temporanea […] cullati dalla assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani […]. La chiusura era infatti avvenuta qualche ora prima che il provvedimento prefettizio fosse reso pubblico ed era naturalmente impossibile prendere in considerazione i casi particolari.
A differenza dei cittadini di Orano, noi abbiamo avuto scelta. Una scelta, per tanti, di dolorosa responsabilità: restare lontano dai propri cari per evitare di contagiare loro e altri. Gradualmente, comunque, si è fatta strada una consapevolezza:
la nostra separazione era destinata a durare e dovevamo imparare a scendere a patti con il tempo.
Il dover “scendere a patti con il tempo”, però, innesca mutamenti profondi nella sensibilità della città colpita dal morbo.
Anzitutto, la lontananza rende più dolorosamente consapevole il sentimento che lega ognuno alle persone lontane. Infatti, scrive il narratore,
per tutti noi il sentimento principale della nostra vita, che pure credevamo di conoscere bene, assumeva un volto nuovo. Mariti e amanti che avevano la più completa fiducia nella compagna si scoprivano gelosi. Uomini che si credevano superficiali in amore riscoprivano la fedeltà. Figli che guardavano a stento la madre ora mettevano tutto il loro rimpianto in una ruga di cui li tormentava il ricordo. Quella separazione brutale, senza appello, senza un avvenire prevedibile, ci lasciava sconcertati.
Stretti tra le mura nella prigionia del contagio, però, gli abitanti di Orano divengono soprattutto più profondamente comunità. Infatti, come osserva cinicamente il faccendiere Cottard, un piccolo criminale che dalla sospensione della giustizia ordinaria ricava indubbi vantaggi:
l’unico modo per mettere insieme la gente rimane ancora mandargli la peste.
Un personaggio in particolare diviene l’emblema del passaggio dall’individualismo alla solidarietà: il giornalista parigino Rambert.
Giunto a Orano per indagare sulle condizioni degli Arabi nella colonia, egli resta bloccato in città, separato dalla giovane moglie oltremare. Inizialmente il pensiero di tornare da lei lo ossessiona, spingendolo a tentare in ogni modo, anche illegalmente, di fuggire. Al dottor Rieux, che gli ricorda il senso del dovere, Rambert oppone la logica della passione individuale. Arrivando a dire rabbiosamente:
Io ne ho abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano.
Tuttavia, assistendo i malati insieme al dottore in attesa di trovare una via di fuga, Rambert intreccia con la città un legame profondo. Tanto da rinunciare, quando se ne presenta l’occasione, a scappare da essa. A uno stupito Rieux, infatti, Rambert spiega:
Ho sempre pensato di essere uno straniero in questa città, di non avere niente a che fare con voi. Ma adesso che ho visto quel che ho visto, so che appartengo a questo posto, che lo voglia o no. È una vicenda che ci riguarda tutti.
L’evoluzione di Rambert mi ha portata a interrogarmi a lungo su chi sia il vero protagonista del romanzo. Non è il giornalista, così come non sono il dottor Rieux, l’eccentrico Tarrou e l’impiegato Grand sempre in cerca di parole. Non è nemmeno la malattia. Chi è, allora?
Mi sembra che sia una certa etica, un certo modo di essere umani, che si ricompone come un mosaico nelle vicende dei personaggi. È un’etica della contingenza che rinuncia a comprendere la peste e le azioni umane in un superiore quadro di senso. Essa chiede soltanto agli individui di non avere “un cuore ignorante, cioè solitario”. Di mettersi a disposizione gli uni degli altri umilmente, riconoscendosi accomunati dalla sofferenza così come dalla speranza e dal desiderio di felicità.
Perché, come nota Tarrou, esiste una forma di peste che si annida tra gli uomini anche quando regna la salute.
Questa è la violenza, l’esser disposti a mandare a morte un proprio simile ritenendo di poter disporre della sua vita. O a lasciare che accada. Della peste fisica come di quella morale questo santo senza Dio dice:
Quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non essere più un appestato e che solo questo può farci sperare nella pace. Solo questo può alleviare gli uomini e, se non salvarli, almeno fare loro il meno male possibile e magari forse un po’ di bene. […] So per certo che ciascuno la porta in sé, la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, distraendosi, di respirare in faccia a un altro e di passargli l’infezione. La sola cosa naturale è il microbo. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, in un certo senso sono frutto della volontà, e di una volontà che non deve mai venir meno. L’uomo giusto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che si distrae il meno possibile.
L’etica al cuore de La peste, fatta di attenzione a sé, di solidarietà, di comprensione e di compassione, costituisce dunque una cura in molti sensi.
Essa giustifica l’affermazione, secondo me meravigliosa, con la quale il dottor Rieux conclude il proprio resoconto del periodo dell’epidemia. Quel che s’impara dai flagelli, scrive, è che
ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare.
Quanto questo sia vero è ciò che stiamo imparando in questi giorni di pandemia. Lo stiamo imparando dal lavoro dei medici, degli infermieri, dei volontari. E di tutti coloro che s’impegnano affinché la vita continui anche quando sembra la fine del mondo.
La peste, dunque, narra qualcosa che confusamente, guardando al lavoro di queste persone, già intuiamo.
Che tutto questo finirà. Anche se avremo sofferto, anche se avremo perduto qualcosa o qualcuno a cui tenevamo, la vita ricomincerà.
E noi avremo l’occasione di essere più pronti ad essa. Noi avremo la responsabilità, duramente istruiti dalla peste, di coltivare la salute di tutti. Ovvero: di essere più umani.
Valeria Meazza