Dopo 237 giorni di sciopero della fame muore Ebru Timtik, l’avvocatessa che si batteva per i diritti umani. Ma la persecuzione degli avvocati in Turchia coinvolge centinaia di professionisti, colpevoli di aver difeso in tribunale gli oppositori del governo.
Il 27 agosto è morta Ebru Timtik. L’avvocatessa, sostenitrice dei diritti umani in Turchia, era stata arrestata nel 2018 con altri 16 colleghi, tutti accusati di far parte del famigerato Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo. A febbraio aveva intrapreso lo sciopero della fame, come atto di protesta nei confronti di un procedimento giudiziario tutt’altro che equo. Decisione adottata anche dal collega Ayataç Ünsal, e prima ancora da molti altri attivisti incarcerati (alcuni dei quali difesi dalla stessa Ebru); come la cantante Helin Bolek, morta la scorsa primavera dopo il lungo digiuno.
Ebru Timtik faceva parte dell’Associazione dei giuristi progressisti. Nella sua carriera aveva difeso i minatori sfruttati, i contadini allontanati dalle proprie terre, i manifestanti schiacciati dal governo. E si era fatta molti nemici.
La sua storia riporta a galla la persecuzione degli avvocati in Turchia, aggravatasi dopo la svolta autoritaria del 2016. La drammatica situazione è stata ampiamente denunciata dalle associazioni forensi, e descritta accuratamente nei rapporti dell’ONG The arrested Lawyers Initiative.
La persecuzione degli avvocati in Turchia
Secondo le stime, sarebbero più di 1500 gli avvocati perseguiti penalmente in Turchia negli ultimi quattro anni; 605 tra questi hanno subito l’arresto. Fino ad ora, i condannati sono stati 345, per un totale di 2158 anni di carcere.
L’accusa? La stessa per tutti: terrorismo. Un reato piuttosto flessibile, nel codice penale turco. Così flessibile, e di ampia interpretazione, che chiunque manifesti il proprio dissenso nei confronti delle autorità può facilmente essere perseguito con questo capo d’accusa. Una sorte toccata a oltre 540.000 cittadini, a detta degli osservatori.
E gli avvocati? Semplice: in barba a qualsiasi principio dello Stato di diritto, essi sono assimilati alle opinioni politiche e ai presunti reati dei loro clienti. È sufficiente prendere le parti di un terrorista (o presunto tale) in qualità di avvocato difensore, per essere accusati a propria volta di sostenerne le rivendicazioni. Basta una dichiarazione di troppo alla stampa, una visita in carcere, o un’appello rivolto alle organizzazioni internazionali, per essere considerati complici dei “nemici dello Stato”. Tutto ciò in aperta violazione delle “Garanzie per il ruolo degli avvocati” stabilite dalle Nazioni Unite.
Durante l’arresto, i legali sarebbero spesso sottoposti a tortura. C’è chi denuncia di essere stato ustionato con le sigarette, chi di aver ricevuto percosse, e chi di essere stato costretto a recitare, con la pistola puntata alla tempia, la professione di fede musulmana. Ovviamente, nessuna di queste azioni criminose commesse in seno allo Stato ha avuto conseguenze penali.
Le condanne definitive agli avvocati arrivano dopo processi farsa, a cui prendono parte testimoni anonimi, con volto coperto e voce contraffatta, senza che la difesa possa fare nulla per identificarli e giudicare la loro attendibilità.
La morsa del governo
Non solo: attraverso un decreto presidenziale, il governo ha acquisito l’autorità di controllare gli Ordini degli avvocati nel Paese e di sospenderne i membri, qualora lo ritenesse necessario. Anche la loro libertà di associazione è notevolmente compromessa: dal 2016 ad oggi ben 34 ONG fondate da avvocati sono state sciolte, i loro bene confiscati, e gli associati, ovviamente, perseguiti.
Un’ulteriore conferma delle persecuzione in atto è arrivata nel bel mezzo dell’emergenza Coronavirus: mentre 100.000 prigionieri turchi ottenevano la libertà vigilata, per evitare il diffondersi dei contagi nelle carceri, gli attivisti per i diritti umani, tra cui gli avvocati, rimanevano in catene. Le maglie dello Stato, per loro, non si allentano nemmeno in caso di pandemia.
È evidente che, per il governo turco, i dissidenti debbano rimanere in carcere, ad ogni costo. Anche quando questo significa condannarli a morte, come nel caso di Ebru.
Scioperi della fame
Fin dagli anni ’90, i prigionieri politici in Turchia hanno fatto ricorso allo strumento dello sciopero della fame, un vero e proprio atto di contestazione non violenta nei confronti delle autorità. Lo scopo è quello di ottenere garanzie di un equo processo ; un miraggio, nella Turchia di Erdogan.
Lo scorso 5 aprile Ebru Timtik aveva annunciato la sua decisione di trasformare lo sciopero in un digiuno fino alla morte, a meno che non fosse sopravvenuta la scarcerazione. L’ordinamento turco prevede il rilascio in caso di gravissimi rischi per la salute del prigioniero; nonostante questo, e ignorando i pareri delle autorità mediche, il governo ha ignorato il suo appello. Scatenando l’ira delle associazioni di categoria e dei gruppi per i diritti umani.
Invece di ottenere la scarcerazione, Timtik e il collega Ünsal sono stati spostati contro la loro volontà dal carcere all’ospedale, forse nel tentativo di sottoporli ad alimentazione forzata. Qui l’avvocatessa avrebbe continuato a subire trattamenti disumani. Secondo quanto affermato dai familiari che l’hanno visitata, i suoi aguzzini avrebbero lasciato tutta la notte le luci accese nella sua stanza, e mantenuto la temperatura a un livello molto basso.
La sua morte dimostra che la Turchia di Erdogan non è disposta a nessuna apertura nei confronti delle libertà politiche e civili. A quattro anni dalla svolta autoritaria, e nonostante la fine ufficiale della stato di emergenza (inaugurato all’indomani del tentato colpo di Stato), la posizione del governo si è tutt’altro che ammorbidita; i diritti umani sembrano ormai un lontano ricordo.
Elena Brizio