La novella Libertà (1882): Verga e una rivoluzione naufragata nel sangue

La novella Libertà di Giovanni Verga

Nel 1882 la novella Libertà di Giovanni Verga raccontava l’altra faccia del processo di unificazione d’Italia. Un volto oscuro, dal quale trasparivano le criticità più dolorose della “Questione Meridionale”.

Leggere la novella Libertà (1882) di Giovanni Verga è un’esperienza dolorosa. A me, personalmente, ha fatto lo stesso effetto che ascoltare la canzone Italia S.P.A. dei 99 Posse.




Ricordo benissimo che la prima volta che ascoltai quella canzone sussultai violentemente. Quando uscì era il 2011 e io, appena finito il liceo, mi preparavo a entrare all’Università. Avevo studiato l’Unificazione a scuola, certo, ma l’avevo affrontata con la bovina spensieratezza di una giovane padana non politicamente formata. Il tricolore per me era un dato di fatto, giusto un po’ colorito di orgoglio lungo i bordi della bandiera. Cosa ci stesse dentro, ancora non lo capivo né mi interessava capirlo. Sentire

Non è questione d’unità,
Se noi l’erem fà
Sì era mej lascià sta!
L’Ottocento fu un secolo di rivolta,
Di giustizia popolare sull’uscio della porta,
Pronta ad entrare, in procinto di portare uguaglianza diritti terra e libertà per tutti.
Ma l’Italia che avete fatto voi l’avete fatta nel modo peggiore,
Spargendo fratellanza e seminando rancore,
Ignorando lo stupore sul volto dei contadini fucilati,
Dei paesi rasi al suolo, delle donne violentate.
Ignorando con dolo le aspirazioni di uguaglianza giustizia e fratellanza
Per le quali a milioni sono stati ammazzati,
Creando senza pentimento un Paese a misura di giustizia,
Un patto scellerato tra Savoia e latifondisti.

è stato una doccia fredda, un risveglio brusco ma sano. Ecco, a offrire una salubre esperienza di questo tipo, 129 anni prima dei 99 Posse ci aveva pensato Verga. Lo avrei scoperto solo parecchi anni dopo. Oggi sulle criticità del percorso unitario della nostra nazione so qualcosina in più (anche se ben lontano dall’abbastanza). La ginocchiata nello stomaco, però, è ancora la stessa.

Tema contesto della novella Libertà

La novella Libertà fu pubblicata la prima volta il 12 marzo 1882 sulla Domenica Letteraria, venendo poi raccolta l’anno successivo nelle Novelle Rusticane. Essa narra i fatti di Bronte del 1860 e il titolo altro non è che una forma di amara ironia da parte dell’autore. A Bronte, infatti, le promesse di libertà dell’impresa dei Mille naufragarono in tre giorni di sanguinose rivolte scatenate dalla mancata distribuzione delle terre dei latifondi. I contadini, delusi dalla promessa non mantenuta, si abbandonarono a violenze atroci, venendo puniti a rivolta conclusa dall’arrivo di Bixio.

La struttura del testo

Costruita con maestria, Libertà ha una struttura perfettamente circolare. La narrazione si apre con lo scoppio della rivolta nella prima giornata:

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! – […] Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano.

In questa prima fase, “libertà” per i poveri significa la possibilità di vendicarsi dei soprusi secolari. Lo fanno, con efferatissima violenza, colpendo i “cappelli” (cioè i possidenti terrieri) e i “galantuomini”, cioè i liberi professionisti e i commercianti.

Nella seconda giornata, però, i rivoltosi stessi sono orripilati da quel che hanno fatto. La sete di vendetta, allora, muta il significato di “libertà” in istanza di giustizia sociale. Non solo: per i contadini e i poveri, “libertà” significa quel benessere che è sempre mancato. Cioè la speranza di vedersi distribuito, come promesso all’arrivo dei Mille, un pezzetto di terra da coltivare. Una libertà che può sembrare gretta e meschina, forse, solo a chi non ha mai avuto fame davvero.

Nella terza giornata, però, la “libertà” naufraga nel beffardo ritorno all’ordine costituito. L’arrivo di Bixio e dei suoi soldati, la cattura e la fucilazione di cinque rivoltosi presi a caso segna l’inizio della fine. La conclusione si stacca dalla struttura temporale principale di tre anni. A Catania, dove sono stati tradotti dopo la cattura per essere processati, i condannati ascoltano la sentenza. Verga fa parlare per tutti un carbonaio, che portato via in manette si dispera:

Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…

Verga e l’horror di una rivoluzione fatta male…

La novella Libertà, quantomeno secondo chi scrive, è “buona da pensare” perché è dolorosa da leggere. In questo testo, in particolare, Verga evoca delle immagini di una violenza sconcertante, quasi splatter. Lo scrittore rappresenta la folla come un mare in tempesta o come un fiume in piena. L’effetto, però, è orrido e non sublime, in quanto il punto di vista è vicino, vicinissimo, e non a distanza di sicurezza. Leggendo, non ci viene risparmiato nulla.

il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! […] Don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa […] Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.

In questa carneficina nessuno viene risparmiato: non c’è pietà per i vecchi, i malati, le donne e i bambini.

Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono […] il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani […] Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani.

È difficile proseguire la lettura, ma necessario.

… E di un’Italia fatta forse peggio

A questo marasma di atrocità fa da contrappunto un’altra forma di violenza, quella istituzionalizzata dell’esercito e della giustizia. Prima di tutti quella di Bixio, un omino piccolo che a cavallo sembra un gigante, premuroso come un padre eppure anche inflessibile coi suoi soldati. A Bixio non importa di colpevoli e innocenti: il suo ruolo è quello di sedare l’instabilità con un’azione di forza.

Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia.

Per stabilire le colpe ed emettere una sentenza ci sono i giudici. Giudici che, però, sono “galantuomini” e per giunta vengono di lontano. Estranei nella classe sociale e nell’esperienza, importa loro più dei disagi subiti che delle vicende degli imputati:

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato.

Una conclusione che suggerisce un profondo scetticismo da parte dell’autore sulle possibilità trasformative di una rivoluzione. Gli ultimi, sembra dire Verga a conclusione di questa novella, resteranno ultimi in un Paese appena nato ma non poi così diverso da prima.

La novella Libertà e il contesto contemporaneo

Tutto questo, per dire cosa esattamente? Per fare una partitina al gioco di denigrare l’Italia tutti insieme? No. Suonerà forse inattuale, ma al mio Paese sono affezionata. Anzi, no. Ne sono orgogliosa e ne sono innamorata. Però riconosco che è un Paese difficile. A renderla tale, secondo me, oltre al contesto politico, economico e sociale, contribuisce il fatto che non conosciamo bene la nostra storia. Per noi Italiani, come popolo in generale, l’ultimo secolo e mezzo di storia è quasi una terra straniera. Conosciamo la vulgata, sì. Ma abbiamo enormi lacune sulle criticità e i punti oscuri del percorso. Non parliamo volentieri del nostro colonialismo, per esempio. Non problematizziamo facilmente il divario tra Nord e Sud e le sue cause profonde. Il fascismo ci sembra storia vecchia, mentre proprio il ritenere sia superato lo rende (purtroppo) porcheria attualissima.

Tornare a leggere la novella Libertà di Giovanni Verga è un modo, secondo me efficace, per cominciare a guardare là dove non vorremmo. Per ricordare che anche le cause giuste possono degenerare in uno scannatoio bestiale. E che la storia del nostro Paese, purtroppo, è fatta anche di questo. Forse non potremo rimediare, ma almeno usciremo dai luoghi comuni e dai resoconti parziali. E da quella posizione potremo provare a cercare soluzioni diverse, più eque, per rendere il nostro Paese migliore.

Valeria Meazza

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