Attraverso un manifesto esposto, la North Dakota State University promuove viaggi di studio in Italia, offrendo storia, cultura e… mafia, sollevando interrogativi sulle rappresentazioni stereotipate dell’Italia nel contesto internazionale. Questa scelta di promozione, che accosta elementi culturali ed educativi a un’immagine legata alla mafia, richiama l’attenzione sulla persistenza di cliché dannosi e obsoleti che ancora affliggono la percezione esterna del nostro Paese.
Nelle lande lontane della North Dakota State University, precisamente a Fargo, un manifesto infiamma le bacheche universitarie con l’audace annuncio di viaggi di studio diretti in Italia nell’estate del 2024. L’elemento dirompente? Lo slogan accattivante e alquanto discutibile:
“Italy, History, Culture, Mafia”.
L’interessante iniziativa, ben strutturata a giudicare dai siti web dell’università e dell’organizzatore, è però offuscata da un’amarezza palpabile, generata dalla mancanza di tatto nella sua promozione. Nonostante le descrizioni positive riguardo all’Italia e al suo stile di vita, il fastidio per questa scelta comunicativa rimane irrisolto. È cruciale scavare nelle motivazioni di questo corto circuito.
Il punto non è solo la fastidiosa curiosità circa il mentore di un’idea simile, bensì l’analisi se sia solo frutto di ignoranza o se, in realtà, esista una persistente rappresentazione degli italiani ancorata a cliché e stereotipi antiquati. La mentalità di molti cittadini statunitensi, anche quelli di livello culturale elevato, sembra ancora inchiodata a una visione dell’italianità relegata a pizza, mafia e mandolino. È un’ombra che, nonostante gli sforzi istituzionali, continua a gravare sul nostro essere nel 2024.
Invero, nonostante l’incessante impegno dello Stato e dei suoi rappresentanti, le associazioni criminali italiane persistono nel tessuto sociale e produttivo, evolvendosi in entità più sofisticate e insidiose. Tuttavia, ciò che emerge è l’immagine dell’italiano radicata nell’immaginario collettivo, ancorata a rappresentazioni cinematografiche come quelle di Francis Ford Coppola in “Il Padrino”, Sergio Leone in “C’era Una Volta in America” o persino nella celebre serie televisiva “The Sopranos”. È un’immagine distante dai personaggi caricaturali di un tempo, come quelli interpretati da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia in “I due mafiosi” del 1964.
Ma perché questi episodi persistono? Nemmeno i nostri cugini francesi o i tedeschi ci hanno risparmiato parodie pesanti e di pessimo gusto, come il discutibile video di Canal Plus con il pizzaiolo italiano diffuso all’inizio della pandemia. Dobbiamo accontentarci di queste rappresentazioni o è giusto interrogarsi sulla radice di questo tenace retaggio?
Se da un lato all’estero l’Italia è ammirata per la sua professionalità, creatività e ricchezza storica, artistica e culturale unica al mondo, dall’altro persiste chi, ignorando tutto ciò, riduce l’italiano al mero stereotipo del mafioso. È innegabile che il manifesto iniziale non abbia avuto intenti dispregiativi, ma si colloca in un modo distorto di percepire il termine “mafia”, scollegandolo dalla sua reale connotazione di associazione criminale. Questa distorsione si riflette in una serie di esempi lampanti.
Da scomparse come il sugo americano “Wicked Cosa Nostra” o il sito di cucina “mamamafiosa”, a opere ancora in commercio come il libro “Cooking The Mafia”, la banalizzazione del termine “mafia” è palpabile. Persino in altre nazioni europee, come in Germania dove “mafia pie” è diventato termine comune per la pizza o in Spagna dove alcuni ristoranti del franchising “La Mafia se sienta a la mesa” hanno mantenuto il nome, nonostante la sentenza del 2019 che proibiva l’utilizzo del marchio per l’associazione negativa che generava.
Può sembrare esagerato ma ridurre certi fenomeni a semplici oggetti di folclore rischia di offuscarne la reale gravità. Non si tratta solo di souvenir o di goliardia, ma di un’inconscia esaltazione di stereotipi dannosi. Forse è giunto il momento di una riflessione più approfondita su questo argomento delicato. In un’epoca in cui la sottile linea tra ironia e esaltazione è così labile, è imprescindibile comprenderne il peso e le implicazioni.
L’immagine dell’italiano come mafioso persiste, a volte in modo inconsapevole e ingenuo, alimentata da scelte comunicative maldestre o dalla sottovalutazione di un problema più ampio. È fondamentale superare questi stereotipi, riconoscendo la vera portata e conseguenze di un’immagine così distorta e offensiva.