Il botta e risposta nel mondo accademico
Sono più di quattromila le firme raccolte all’interno del panorama accademico italiano che chiedono la fine delle ostilità in medio-oriente, assieme all’interruzione delle collaborazioni con il mondo universitario israeliano «fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario». Malgrado le intenzioni condivisibili, la condizione attuale dello scenario politico e democratico mostra più che mai la necessità del dialogo nelle università.
Infatti, alla critica al regime di Apartheid israeliano, che discrimina le minoranze arabe, ha risposto un’altra parte del mondo accademico. Attraverso una petizione su Change.org – che ha raccolto migliaia di firme –, una serie di professori ha chiesto un boicottaggio dell’iniziativa contro i centri di ricerca israeliani.
Se da una parte si insiste sulle atrocità commesse contro i civili di Gaza, dall’altra si fa appello al crescente antisemitismo che infiamma alcune proteste. Ma stendere le sanzioni contro studenti e professori israeliani è sbagliato perché, oltre a interrompere scambi proficui, si tende alla generalizzazione di un contesto complicato. Inoltre, si isolano voci che proprio in questo momento hanno bisogno di sostegno da parte della comunità internazionale, come il professore israeliano Meir Baruchin, licenziato per avere condannato il proprio governo.
Dall’altro lato, la petizione contro il boicottaggio non solo esibisce l’ormai stagnante retorica che esaspera la confusione tra l’antisionismo e l’antisemitismo, ma rinnega le disuguaglianze sociali presenti nella società israeliana. «La società israeliana è secolare e rigorosamente multietnica» si legge nel testo. Un’eccessiva banalizzazione, che passa sopra i tassi di povertà – circa tre volte superiori – e la vera e propria ghettizzazione per chi ha origini arabe.
Infine, il gruppo firmatario della petizione opera un vero e proprio rovesciamento di fronti, accusando di dipingere Israele come uno stato canaglia. Eppure, il lessico impiegato dai media e dal governo israeliano suggerirebbe proprio il contrario.
Scontro di identità
Il dibattito accademico riflette quello mediatico. Un conflitto di ideologie condotto a suon di accuse o manipolazioni. In un clima simile agli scontri tra tifoserie allo stadio, il tessuto sociale si lede e il dialogo tace. È da tempo che gli studiosi si interrogano sull’argomento. Da Habermas a Byung-Chul Han, la scomparsa del confronto razionale e costruttivo è considerata una delle principali cause della crisi della democrazia.
In un sistema in cui tutti sono chiamati a esporre le proprie opinioni, si deve essere anche disposti all’ascolto. Nella democrazia ideale i problemi si risolvono insieme, costruendo soluzioni verso un unico fine e su un terreno comune che non lascia fuori nessuna voce. Ma sul piano pratico, reale e odierno, la democrazia è un progetto ancora in costruzione che minaccia in ogni momento di essere abbandonato. Per questi motivi si fa sempre più evidente la necessità del dialogo nelle università.
Nel saggio Infocrazia. La digitalizzazione e la crisi della democrazia (2023) Byung-Chul Han compie una perfetta analisi della lesione sociale contemporanea: «Oggi la comunicazione diventa sempre meno discorsiva, con la società che si dissolve in identità inconciliabili, prive di alterità. Al posto del discorso troviamo una guerra dell’identità. La società perde così ogni elemento comunitario, anzi ogni senso civico. Non prestiamo più ascolto reciproco, […] ascoltiamo soltanto noi stessi».
Il dibattito che dovrebbe orientare la politica svanisce dietro le trincee in cui ognuno si barrica, aprendo il fuoco a colpi di “informazioni”. Esse diventano veri e propri strumenti di controllo sociale. Che siano vere o false, poco importa. L’interesse è che colpiscano il bersaglio e reclutino nuovi soldati. Tapparsi le orecchie e aprire la bocca, guardando solo verso dove ci fa comodo: queste sono le regole del dibattito odierno sfociante in monologo.
Le personalità degli individui si appiattiscono ereditando valori derivanti da una serie di etichette tra cui possiamo scegliere. Che siano ideali dei partiti, immagini del profilo sui social, sfondi del cellulare, adesivi da attaccare… sostenere una causa significa necessariamente conformarsi ad un modello ideale che non lascia margini di confronto. Quando il pensiero diviene identitario perde anche la sua libertà, alzando muri che tengono l’Altro lontano da sé.
Un luogo di resistenza
Di fronte a uno scenario simile, le università non possono permettersi di lasciarsi influenzare. Gli studenti devono sapere che nell’accademia non vige lo stesso meccanismo polarizzante. Devono sapere che esiste ancora una zona franca dove coltivare un dialogo costruttivo, lontani da retoriche riduzionistiche o semplificazioni.
In un mondo sempre più votato all’omologazione, a etichette da esibire per definirsi e identificarsi in un gruppo, l’informazione e la cultura devono rimanere indipendenti. Gli atenei sono uno dei luoghi più importanti di riflessione teorica, dove il conflitto si risolve per vie alternative che la riduzione al silenzio. La parola dell’Altro arricchisce l’Io. L’ascolto è la pratica che si insegna nelle aule universitarie, e chiunque è libero di parlare, come in una democrazia.
Una democrazia differente da quella che auspica il totale annientamento del nemico, visto come il male supremo. Il governo israeliano è ben lontano dai principi democratici, ma questo va dimostrato proprio evitando di cadere al livello di chi vuol sentire solo la propria ragione.
Se oggi il sistema democratico vive una crisi sempre più evidente, si fa sempre più forte anche la necessità del dialogo nelle università, in modo tale da formare gli studenti all’attività fondativa della democrazia stessa e mostrare che essa, da qualche parte, resiste ancora.
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