La nascita della legge sul caporalato che ha dato voce ai lavoratori

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La nascita della Legge sul Caporalato in Italia rappresenta un capitolo significativo nella lotta contro questa pratica disumana. Questa legge, la numero 199 del 4 novembre 2016, è emersa in risposta a anni di sforzi, battaglie e tragedie che hanno portato il problema del caporalato all’attenzione del pubblico e delle istituzioni. È il risultato di un impegno congiunto di sindacati, attivisti e politici, che hanno lavorato instancabilmente per porre fine allo sfruttamento dei lavoratori agricoli.

Il caporalato, una parola che è ormai entrata nel vocabolario quotidiano degli italiani, è un fenomeno che, purtroppo e per fortuna, è diventato di dominio pubblico negli ultimi anni. Questo termine rappresenta una realtà angosciante e disumana, che si è diffusa su tutto il territorio nazionale, coinvolgendo centinaia di migliaia di lavoratori, la maggior parte dei quali stranieri, e migliaia di aziende che fanno ricorso all’intermediazione illecita e para-mafiosa della manodopera.

Ma perché diciamo “per fortuna”? Perché quando una problematica emerge in modo così evidente, significa che sta finalmente attirando l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, un passo fondamentale per affrontarla. Ma come è nata questa consapevolezza? Come è emerso il quadro drammatico del caporalato in Italia e come ha preso forma la legge che ha cercato di combatterlo?

Prima del 2015, il caporalato era un problema sommerso e poco discusso. Pochi articoli ne parlavano, e la società sembrava ignorare l’estensione del fenomeno. Tutto è cambiato con la Legge sul Caporalato, la numero 199 del 4 novembre 2016. Questa legge ha finalmente riconosciuto la gravità del reato di caporalato ed è il risultato di lotte per la dignità umana, di battaglie sindacali, scioperi e rivendicazioni di diritti.

Tutto ha avuto inizio il 7 gennaio 2010, quando due braccianti agricoli africani sono stati assassinati a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro (RC). Questo tragico evento segnò l’inizio di una ribellione, caratterizzata da momenti drammatici e violenti: i connazionali dei braccianti assassinati protestarono, le forze dell’ordine intervennero, e ci fu una reazione degli abitanti. Un anno dopo, la Cgil lanciò la campagna “Stop caporalato,” chiedendo al legislatore l’inserimento nel codice penale del reato di caporalato e il perseguimento penale di chi sfrutta e riduce in schiavitù i lavoratori.

Nello stesso anno, a Nardò (LE), Yvan Sagnet, uno studente camerunense del Politecnico di Torino, si scontrò con il fenomeno del caporalato mentre cercava lavoro nelle campagne salentine per pagarsi gli studi. Organizzò il primo grande sciopero dei braccianti agricoli migranti per i diritti dei lavoratori e contro lo sfruttamento. Questo sciopero rappresentò la scintilla che diede avvio a un’indagine e a un processo che portarono alla “prima condanna per schiavitù in Europa.”

Nel frattempo, le campagne dei sindacati trovarono l’appoggio di interlocutori politici, e il 26 luglio 2011 fu presentato il disegno di legge 2584, che prevedeva l’inasprimento delle pene per chi svolgeva attività di intermediazione della manodopera caratterizzata da sfruttamento, violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità del lavoratore.

Il 2015 fu un anno cruciale: circa quattromila braccianti indiani protestarono nelle campagne di Latina, una bracciante italiana di nome Paola Clemente morì dopo una giornata di lavoro sotto il sole a San Giorgio Jonico (TA), e un altro lavoratore agricolo, Arcangelo De Marco, perse la vita in provincia di Matera. Queste non sono state le prime vittime italiane dello sfruttamento. Nel 1996, una giovane bracciante di 18 anni di nome Annamaria Torno morì, ma molte altre vittime sono passate in sordina.

Tuttavia, in quel periodo storico non c’era la stessa attenzione delle istituzioni, dell’opinione pubblica e dei sindacati nei confronti del caporalato come nel decennio 2010-2020.

Il caporalato mette da una parte i lavoratori e le vittime e dall’altra i caporali e le aziende. I caporali sono coloro che reclutano la manodopera per conto terzi, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, spesso migranti. Questi lavoratori sono costretti ad accettare le condizioni imposte loro, qualunque esse siano, per sopravvivere. La Legge sul Caporalato ha introdotto il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, equiparando il caporale al datore di lavoro. Questa legge rappresenta un importante traguardo per i diritti dei lavoratori agricoli, poiché condanna in modo indelebile le pratiche di oppressione che erano diffuse e talvolta socialmente accettate.

Inoltre, la legge individua importanti indicatori della condizione di sfruttamento e di lesione della dignità umana, come le condizioni di lavoro disumane, la mancanza di accesso all’acqua, i salari da fame senza limiti di orario e pause, le trattenute ingiustificate sui compensi, i servizi erogati in maniera esclusiva e vincolante, le minacce, il mobbing e persino la violenza sessuale.

Prima della Legge 199/2016, il caporalato non era punito con pene particolarmente severe, nonostante i reati di “intermediazione illecita” e “interposizione illecita e fraudolenta” fossero stati introdotti dalla riforma Biagi del 2003. Tuttavia, l’applicazione pratica di queste norme era ostacolata dalla mancanza di un sistema di protezione effettiva per i lavoratori che osavano denunciare.

La nascita della Legge sul Caporalato in Italia è stata un processo lungo e difficile, che ha coinvolto lotte, sacrifici e il coraggio di molti. Questa legge rappresenta una vittoria per i diritti dei lavoratori e una speranza per un mondo del lavoro agricolo più equo. Ora è compito delle istituzioni e della società assicurare che questa legge sia applicata in modo efficace, affinché il flagello del caporalato possa essere definitivamente sradicato dal nostro paese.

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