Come sostenuto dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset, se la filosofia vuole configurarsi come qualcosa di autentico, di vero, deve accadere in ciascuno di noi. Deve essere ciascuno di noi. Sostare sul breve testo di Ortega La mummia della filosofia, significa ripensare la pratica filosofica nel segno della sua profonda gittata vitale.
Che cos’è la filosofia? Interrogativo originario, fondante, antico di millenni. Almeno da quando il termine in questione è stato coniato e praticato, nella Grecia arcaica e classica. Interrogativo, quindi, di certo non inedito, visti i millenni di esperienza su di esso. Ma del quale non è possibile assuefarsi, abituarsi, quietarsi definitivamente. Su vari livelli e molteplici prospettive la domanda è stata abitata nei secoli. Oggi, che di filosofia si parla e se ne rivendica una certa centralità nelle questioni quotidiane, occorre ripensarla. Affinché questa non si riduca ad essere la mummia della filosofia.
Chiedersi che cosa sia la filosofia è già, in una qualche misura, praticarla. Beninteso, secondo la pratica del «che cos’è?» socratico, da una precisa fenditura. Addentrarsi nei meandri dell’essenza degli oggetti ricercati. Accostarsi al che dello svolgimento del reale, oltre che al come.
Allora la filosofia emerge anche come una questione di attitudine, di predisposizione alla profonda gittata dell’esistenza e, quindi, della ricerca. Un’indagine che, ad un tempo, punta al nucleo ed alla bordatura del reale. Atto d’amore, inoltre, quello filosofico, evocandone l’etimologia. Amore per il sapere, per la sapienza o – per dirla con una felice espressione di Heidegger – amore verso ciò che è da pensare. La questione è così complessa da doverci sostare smisuratamente, indefinitamente. Dal punto di vista filosofico, storico, filologico, ermeneutico.
ORTEGA Y GASSET: LA MUMMIA DELLA FILOSOFIA
La filosofia, è inevitabile, si dice in molti modi. Ma non volendo, con ciò, esaurire una questione ben più complessa ed ampia, risulta, oggi, particolarmente pregnante una proposta avanzata dal filosofo spagnolo Ortega. Non si tratta di una stretta ed univoca definizione ma di una traccia, di un solco, di un accenno. Di un’indicazione retrospettiva e prospettica mai del tutto conclusiva. Un orizzonte impresso, inciso storicamente, collocato in appendice al corso La ragione storica, tenuto dal filosofo spagnolo nel 1940 e riproposto nel 1944. Rispettivamente presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires e successivamente presso la facoltà di Lettere dell’Università di Lisbona. Materiale diverso, ragioni di fondo condivise. Il contenuto dei corsi – in forma di manoscritti preparativi e copie dattilografate – è stato poi raccolto da Paulino Garagorri e pubblicato sotto il titolo Metafisica e ragione storica.
Ortega y Gasset intitola l’appendice in questione La mummia della filosofia. Si tratta di un testo brevissimo che funge da chiusura, nell’economia del testo, ma si configura come un’apertura nel procedere della ricerca. Nell’ininterrotto ed asintotico itinerario che è l’impresa filosofica, la collocazione di questa appendice si fa tornante. Ed un tornante è, appunto, il chiaroscurale, meraviglioso e terribile, gioco della ricerca umana. Pratica, questa, che si invera su un fondo enigmatico in cui si co-appartengono ragione ed emozione, mente e cuore, rigore e suggestione.
ORIGINI E PROSPETTIVE DELL’APPENDICE
La temperie in cui scrive Ortega è, al contempo, intimamente vicina ed abissalmente lontana dall’oggi. Lo straordinario e decisivo portato del progresso tecnico-scientifico – che, da sempre, affaccenda l’uomo – aveva già raggiunto una risonanza senza precedenti. Al crescere dei benefici, però, seguiva un’estraniante lievitazione dei rischi. Epoca di straordinarie conquiste e tetri, spettrali, inenarrabili risvolti. Fermento di dubbi assalitori e aneliti di senso.
La filosofia sembrava soccomberne a tal punto da essere paragonata, da Ortega, ad un corpo di lunga decomposizione. Ad una mummia, appunto. Scienze dure e scienze umanistiche dovrebbero, con difficile semplicità, pensare e lavorare in concerto. Non si intende, almeno in questa sede, tracciare un primato di un universo di ricerca sull’altro. Ma ripercorrere ciò che dall’appendice in questione si presenta come un’occasione di ripensamento di essenza e ruolo della filosofia. E sostare su quanto risponde, sebbene l’interrogativo non sia esplicitamente posto dall’autore, ad un’esigenza ben precisa.
LA PROPOSTA DI ORTEGA
Se, ed in che modo, il lavoro filosofico può farsi canale di arricchimento, cassa di risonanza dalle decisive implicazioni vitali? Perché se la pratica filosofica vuole essere autentica, deve configurarsi come qualcosa di importante. Ripercorrendo il testo di Ortega, la filosofia:
È ciò che si produce nella nostra vita nei momenti culminanti, allorché il vivere si estende, cresce, e come vivere è più che vivere. La filosofia, se è qualcosa di vero, non in senso convenzionale o tanto per dire, se è qualcosa, non può essere qualcosa di grigio e insignificante o che si elargisce dalle cattedre, ma qualcosa che accade in ciascuno di noi, che è ciascuno di noi.
Ortega, dunque, stabilisce dei punti di riferimento precisi, puntuali, benché non monolitici. Lega la verità, l’autenticità del fare filosofico all’accadere di qualcosa in chi lo pratica. Accadere così radicato, profondo, rilevante da farsi corpo. E, quindi, l’evento filosofico non solo come ciò che accade ma come qualcosa che si incorpora, che si invera. Un esercizio teoretico e tangibile, che dalla teoria si ripercuote sulla prassi, e viceversa. La filosofia si struttura, così, come la viva voce che irrora lo stare al mondo di corpi vivi. Qualcosa di radicalmente diverso da quanto provocatoriamente Ortega annuncia con il titolo dell’appendice – La mummia della filosofia.
L’OLTRE FILOSOFICO
La viva voce del corpo vivo – che in tedesco è espresso dal termine Leib, distinto da Körper, mero corpo anatomico – circola negli ambienti in cui la filosofia è praticata, ma non si ferma lì. Nell’accadere, nel farsi corpo, la filosofia «entrerebbe in noi con violenza, a un tempo dolorosa e deliziosa e rimarrebbe lì, dentro di noi, per sempre». Eccedendo non di poco il perimetro della fruizione accademica per volgersi all’eccedenza d’essere che quotidianamente accade. E sulla quale l’uomo è chiamato all’ascolto, alla riflessione, alla debita sosta.
La lezione filosofica, insomma, come la rappresentazione tragica si conclude, ma mai finisce. Ce la si porta dietro. Come l’agone in cui si dispiega lo spirito tragico – pur riconoscendone i rispettivi perimetri di specificità – è un invito all’oltre del già dato. Un’occasione di rigenerazione teorica e vitale nel rigenerarsi della parola filosofica. Sulla base di ciò, e sulla scia di una costruttiva provocazione, allora Ortega conclude La mummia della filosofia con un prospettico interrogativo. Cosa si ricaverebbe dal fatto che:
Ogni giorno, la filosofia, alla conclusione della lezione, resterebbe non sulla cattedra come un uccello disseccato [nel museo] di storia naturale, ma «verrebbe via con noi»?
Mattia Spanò