E’ morto un ragazzo di diciassette anni. Non è il primo, non sarà l’ultimo.
E’ morto riverso sui basoli di Napoli, ma poteva accadere sull’asfalto di qualsiasi altra città.
E’ morto un ragazzo di diciassette anni. Il complice, appena maggiorenne, è stato arrestato. Sconterà in vita la pena inflitta alla sua esistenza.
Le indagini sono in corso. La dinamica dei fatti è ancora poco chiara.
Luigi Caiafa è stato ucciso mentre stava compiendo una rapina. Ferito a morte da un poliziotto che la stava sventando.
Queste righe non vogliono stabilire nessuna verità. Non compiono alcuno sforzo di condanna o di assoluzione. Non posseggono neanche l’arroganza di illustrare certi meccanismi criminali e il loro verificarsi, né la presunzione di insegnare a prevenirli e a disinnescarli.
Sono parole messe in fila dalla voglia di provare a fermare questa emorragia di vite brevi.
Da un po’ di tempo a questa parte mi sono reso conto che li piangiamo spesso e troppo presto.
Ho visto molta indignazione intorno a questo fatto di cronaca. Un’indignazione un po’ stanca, di seconda mano, di quelle inutili perché non riescono a darti forza per cambiare lo stato delle cose.
Le posizioni si sono subito polarizzate e ridotte a uno scontro tra accusatori e difensori, tra colpevolisti e innocentisti. L’abuso di giudizi ha portato a un’overdose di retorica equamente distribuita nelle vene di ambo gli schieramenti.
Ho preso atto del fatto che molti hanno dato all’orologio la colpa della tragedia, certi che se alle 4.26 di quel mattino Luigi Caiafa fosse stato a casa a dormire, si sarebbe salvato.
No. Sarebbe morto comunque. Magari la sera del giorno dopo o un qualunque pomeriggio della settimana successiva.
Perché la sua morte non è stata una disgrazia, ma l’ultimo atto di una tragedia annunciata.
Luigi, insieme a tutti quelli che prima e come lui hanno chiuso gli occhi, è figlio di una generazione a cui non è stata concessa terra per mettere radici e non è stata data acqua per crescere sana.
Luigi Caiafa è il frutto marcio di un raccolto andato quasi tutto a male.
C’è un vuoto intorno a questi ragazzi che fa paura. Un vuoto alto, lungo e profondo che non è fatto solo di assenze ma anche di silenzi e oscurità.
Adolescenze passate senza percepire rumori e senza voci intorno, quelle che possono salvare la vita: la famiglia, gli amici, la scuola, il lavoro, le relazioni sociali, i luoghi di aggregazione.
Una vita passata al buio, senza luce: quella che illumina le possibilità, che rende visibili le opportunità, che rischiara le speranze.
E poi uno Stato latitante, servizi che non esistono, assistenza zero.
E’ qui che queste anime si incendiano, bruciano e si spengono. Velocemente.
Vite cadenti di cui resta solo la scia di sangue.
Non c’è alternativa al niente e in questo deserto morale e valoriale è la malavita a insinuarsi, a farsi largo, a dettare le regole, a dare l’unico esempio possibile. Quello cattivo.
Non è una giustificazione. E’ una constatazione.
Penso che ormai buona parte di questa generazione l’abbiamo persa.
L’abbiamo persa perché non vogliamo o non riusciamo ad ammetterlo. E non ammetterlo vuol dire continuare ad avallare la sottrazione di altri futuri.
Abbiamo sbagliato. Dobbiamo prenderne coscienza. E’ giunto il tempo di una riflessione collettiva.
Altrimenti chissà quanti altri Luigi cadranno.
Sotto le nostre colpe.
Sotto chissà quali altri colpi.
Bravo