La morte di Amir Dhouiou: l’ennesimo suicidio in carcere

Amir Dhouiou

Il sistema penitenziario italiano si trova a fronteggiare una crisi sempre più drammatica, sottolineata da un dato inquietante: 86 suicidi tra i detenuti dall’inizio del 2024. Questo numero, il più alto mai registrato da quando l’organizzazione Ristretti Orizzonti ha iniziato a monitorare il fenomeno a livello nazionale, evidenzia una situazione critica che non può più essere ignorata. Tra questi tragici episodi, quello di Amir Dhouiou, un giovane di 21 anni che si è tolto la vita nel carcere Marassi di Genova il 4 dicembre, il quale rappresenta un ennesimo campanello d’allarme per le istituzioni.

Il contesto di una tragedia

Amir Dhouiou, poco più che ventenne, rappresenta uno dei volti più giovani di questa drammatica statistica. Le circostanze specifiche che hanno portato al suo gesto estremo non sono state chiarite in modo esaustivo, ma la sua morte è stata accolta con sgomento e dolore sia dentro che fuori dalle mura del carcere. Amir, come molti altri detenuti, si trovava in una condizione di isolamento e sofferenza, elementi che spesso si intrecciano in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Il carcere Marassi di Genova, dove Amir era detenuto, è stato più volte al centro di denunce riguardanti il sovraffollamento e le condizioni di vita precarie. Questi fattori, uniti alla fragilità psicologica che molti detenuti già portano con sé al momento dell’ingresso in carcere, creano un terreno fertile per episodi di autolesionismo e suicidio.

Una statistica che pesa come un macigno

Il dato fornito da Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova impegnata nel monitoraggio delle condizioni dei detenuti, fotografa una situazione allarmante. Gli 86 suicidi registrati nel 2024 rappresentano non solo un record negativo, ma anche un chiaro sintomo di un sistema incapace di garantire il benessere minimo dei suoi ospiti.

L’aumento di questi tragici eventi rispetto agli anni precedenti pone interrogativi profondi sulla capacità del sistema penitenziario italiano di rispettare la dignità umana e il diritto alla salute psicofisica dei detenuti. La situazione è ancora più preoccupante se si considera che molte delle vittime erano giovani o persone in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti secondo il principio di presunzione d’innocenza.

Sovraffollamento e carenze strutturali

Uno dei fattori che contribuiscono maggiormente alla tragedia dei suicidi in carcere è il sovraffollamento. Con oltre 57.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di circa 50.000 posti, le prigioni italiane vivono una condizione di emergenza cronica. Celle progettate per ospitare due persone ne accolgono spesso tre o più, riducendo al minimo lo spazio vitale e aumentando il livello di stress e conflitto tra i detenuti.



Le carenze strutturali non si limitano però alla mancanza di spazio. Molte strutture soffrono di degrado, mancanza di servizi essenziali e personale insufficiente. Gli operatori penitenziari, spesso sottoposti a turni massacranti e privi di adeguata formazione psicologica, non sono in grado di fornire il supporto necessario ai detenuti in difficoltà. A ciò si aggiunge la scarsità di programmi di riabilitazione e reinserimento sociale, che lasciano molti reclusi senza prospettive per il futuro.

La dimensione psicologica della detenzione

L’impatto della detenzione sulla salute mentale è un altro aspetto cruciale. Molti detenuti entrano in carcere con preesistenti fragilità psicologiche, spesso aggravate dalle condizioni di vita carcerarie. L’isolamento, la mancanza di contatti con l’esterno e l’assenza di attività significative contribuiscono a creare un ambiente oppressivo, che può portare anche i più forti a cedere.

Gli interventi di supporto psicologico sono spesso insufficienti o del tutto assenti. La carenza di psicologi e psichiatri all’interno delle strutture penitenziarie è una problematica ben nota, ma raramente affrontata con decisione. Di fronte a questa carenza, molti detenuti rimangono abbandonati a loro stessi, senza strumenti per affrontare le difficoltà emotive e psicologiche che la detenzione comporta.

Le responsabilità delle istituzioni

La gestione delle carceri è una responsabilità diretta dello Stato, che ha il dovere di garantire non solo la sicurezza della società, ma anche il rispetto dei diritti fondamentali di chi si trova recluso. Il tasso di suicidi tra i detenuti rappresenta un fallimento collettivo che coinvolge tutte le istituzioni, dalla politica alle amministrazioni locali e nazionali.

Le denunce delle associazioni per i diritti umani e degli osservatori indipendenti sono numerose, ma spesso cadono nel vuoto. Interventi legislativi e piani di riforma si succedono senza mai affrontare radicalmente le cause profonde della crisi. Nel frattempo, le vite spezzate come quella di Amir Dhouiou continuano ad accumularsi, aggiungendo dolore e indignazione.

Possibili soluzioni

Per affrontare questa crisi, è necessario un approccio sistemico che coinvolga tutti gli attori in campo. Tra le misure più urgenti vi sono l’aumento delle risorse destinate al sistema penitenziario, l’ampliamento degli spazi detentivi e il potenziamento del personale, con particolare attenzione alla formazione psicologica degli operatori.

Parallelamente, è fondamentale sviluppare programmi di supporto psicologico e di reinserimento sociale per i detenuti. Progetti di educazione, lavoro e formazione professionale possono contribuire a ridare speranza e dignità a chi si trova in carcere, riducendo al contempo il rischio di recidiva.

Infine, una riforma del sistema giudiziario potrebbe contribuire a limitare l’uso della detenzione preventiva, una delle principali cause del sovraffollamento. Promuovere pene alternative, come i lavori socialmente utili o la detenzione domiciliare, potrebbe rappresentare una soluzione efficace per ridurre la pressione sulle carceri e migliorare le condizioni di vita dei detenuti.

Una responsabilità collettiva

La morte di Amir Dhouiou e degli altri 85 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024 è un richiamo urgente all’azione. Non si tratta solo di numeri, ma di vite umane, ciascuna con una storia e una dignità che meritano rispetto. Affrontare questa crisi richiede un impegno collettivo, che coinvolga non solo le istituzioni ma anche la società civile nel suo complesso.

Il carcere non può essere un luogo di abbandono e disperazione. Deve diventare uno spazio di recupero e rinascita, in cui chi ha sbagliato possa trovare gli strumenti per ricostruire la propria vita.

 

 

 

 

 

Patricia Iori

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