Come si fa a fare i conti con qualcosa di naturale come la morte? Le comunità umane si sono sempre trovate di fronte a un evento di natura, un evento incontrollabile, ma hanno sempre cercato di trasformarlo in un evento culturale e pensabile.
La morte è un evento naturale che nel momento in cui fa il suo ingresso nella vita di ognuno di noi, e di ogni comunità, suscita scandalo. Come si fa a rendere pensabile un evento così drammatico e così doloroso? Come si fa a renderlo dicibile? Se il dolore di una morte non trova parola, non è possibile né un superamento culturale del defunto – che deve passare da “cadavere” a “morto riconosciuto” – , né un superamento dell’evento luttuoso da parte dei vivi. Un momento tragico come quello della morte può generare la «crisi della presenza», come scriveva l’antropologo italiano De Martino in Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958). Il passaggio da una «crisi della presenza» a un «riscatto della presenza» nel caso di una morte singola, si lega alle modalità culturali con cui le comunità organizzano la “seconda morte” del singolo stesso. Il morto muore una prima volta di morte “naturale”, ma perché possa davvero abbandonare il mondo dei vivi, questi devono riconoscerlo in quanto morto attraverso una “seconda morte”, quella culturale.
Dire e pensare la morte culturalmente
Il rito rende dicibile la morte con parole e gesti supportati dalla musica che fanno sì che il cordoglio per la morte si sottragga alla dimensione del presente e della concretezza. Il rito destorifica non solo il morto ma anche il dolore. Il dolore destorificato e vissuto con gesti e parole stereotipate non ha la capacità di penetrare nell’intimo della persona che ha subito il lutto. Questa capacità si dà attraverso una sinergia tra la destorificazione della morte e la singolarizzazione del dolore, la capacità di introdurre nella rete fitta della stereotipia dei gesti alcuni elementi personali, dei ricordi che si legano alla persona che non c’è più.
La morte come evento solo naturale: l’esempio del Covid-19
Se pensiamo alla nostra storia più recente legata al Covid-19 e alle vittime della pandemia, la tragedia è doppia. Abbiamo sofferto la morte naturale di milioni di persone. In quanto singoli facenti parte di questa comunità abbiamo vissuto la tragedia nella tragedia di assistere a delle morti naturali che non abbiamo avuto modo di piangere. Non abbiamo potuto condividere quel dolore, seppellire i nostri morti, raccontare le storie personali che ci legavano a quelle persone. Ma l’uomo ha bisogno anche di questi momenti di creazione simbolica come riscatto della morte dalla morte e della vita nella vita. Lo shock del lutto ha bisogno sempre di due tempi, e se questa è una necessità per l’uomo, noi non abbiamo potuto esercitarla. Il lamento funebre, il rito e la gestualità che si accompagna, il pianto singolo e corale, il racconto del ricordo e della storia dei singoli individui, sono degli stratagemmi per rielaborare un momento distruttivo e doloroso. Possiamo dire, con le parole di De Martino, che l’insieme dei gesti che dal mondo rituale antico ad oggi costituiscono il rito di accompagnamento del defunto nel mondo dei morti rappresentano «una progressiva attenuazione simbolica rispetto all’effettivo atto suicida della crisi in atto», la crisi che segue quando scopriamo di dover lasciar andare definitivamente una persona a noi cara.
Il cordoglio e il planctus di Maria
Dal mondo antico a oggi, la valenza più sottile del pianto rituale è stata quella di trasformare il morto in un entità metastorica ma non aliena. Il morto è lasciato morire, ma resterà un’entità con la quale è possibile continuare a dialogare. Non solo gli antichi egizi, i greci, i latini e altre popolazioni del mondo antico hanno sempre cercato di inventare nuovi linguaggi di elaborazione del lutto, ma anche la religione cristiana ha edificato riti che rendessero possibile l’espressione del cordoglio. Il nostro esempio è quello di Cristo morto giovane sulla croce, accompagnato dal lamento della Vergine Maria, sua madre. Anche il pianto della Vergine diventa esemplare e ci restituisce un modello, un codice attraverso cui leggere e rielaborare il nostro dolore. Dobbiamo sottolineare come i Padri della Chiesa fossero contrari al lamento funebre in quanto negazione dell’oltre, di una possibilità di riscatto finale posto alla fine dei tempi. Proprio in questo senso la figura di Maria costituisce un’ambiguità e diventa per noi un simbolo di una pregnanza eccezionale: da un lato dovrebbe rimanere, “stare” (come recita lo Stabat mater) affianco alla croce di Gesù, in maniera più composta e senza concedersi al dolore, ma in molte immagini è rappresentata in preda al delirio mentre piange alla maniera di una lamentatrice antica. Cioè: il dolore della Vergine è sì illuminato e dominato da una soprannaturale luce e carità divina, perciò tenero e pacato, composto e intimo, spirituale, ma questo non cessa di essere un dolore umano, un dolore di una madre per il figlio.
Lasciar morire per aprirsi a una nuova vita
Ciò che desta meraviglia è come quel dolore tanto sofferto nel planctus di Maria non diventi a sua volta morte. Si può morire, infatti, di dolore? Se non si fanno i conti con il dolore del passato, il nuovo non può ricominciare. Se il lutto non viene vissuto fino in fondo, quella morte non smette di morire e la nostra vita non può mai riprendere nelle sue attività quotidiane. Ma non è possibile neppure pensare che i riti immediatamente successivi alla morte e il momento del funerale bastino affinché un dolore così grande possa dirsi risolto. Bisogna ripetere quel planctus. L’elaborazione del lutto è qualcosa che si attraversa nel tempo, che è sempre da costruire, mai dato come una conseguenza naturale della morte o di un evento luttuoso. Bisogna continuare ad avere cura dei morti e continuare a costruire una cara memoria delle persone che ci hanno lasciato. Chi resta in vita può continuare a vivere solo se si impegna nel riscatto continuo della sua stessa vita. C’è bisogno che ognuno di noi, chiamato anche in futuro dal dolore di una morte già avvenuta che può sempre ritornare, torni a piangere i propri morti, a ricostruire la trama dei simboli, dei gesti, dei riti, affinché sia sempre possibile continuarli a ricordare senza lasciarci travolgere dalla crisi che quel dolore ricordato può portare con sé.
Carmen della Porta