Ofelia giace per sempre bellissima nella sua tomba d’acqua fiorita. La Beatrice dantesca è per tutti un puro spirito empireo e la Laura di Petrarca ha portato nella morte le proprie trecce bionde. Dietro ogni uomo celebre, c’è una splendida donna…morta. Di questo parla il brillante saggio di Francesca Serra: La morte ci fa belle (Torino 2013, Bollati Boringhieri).
Critica e studiosa di letteratura italiana, ripercorre varie manifestazioni dell’archetipica “sposa cadavere”. Lo fa a partire dalla trovata pubblicitaria di Zbigniew Lindner, che vende bare a Varsavia. La bellezza dei suoi prodotti è stata accostata a quella delle ragazze polacche, in un calendario fotografico.
Da una celebre bellezza di Varsavia fu sedotto anche Napoleone Bonaparte, nel 1807. E ci volle ben altro che una bara, per celare l’imbarazzo costituito dalla sua salma. Il Cinque Maggio manzoniano ricorda lo shock di quella trasformazione: l’ “uom fatale” improvvisamente trasformato in una carcassa.
La Serra parla di “ultracorpi”, per indicare i monumenti e le effigi che nascondono il troppo umano destino dei grandi. Rimanendo al posto della salma, danno l’illusione che il summus vir della situazione non sia mai morto. Che possa essere ovunque, come un dio.
Nel 1885, fu celebrato invece il funerale di Victor Hugo. Vista la folla oceanica che partecipò e i gadget dedicati all’occasione, l’autrice vede nell’evento una sorta di apoteosi della nascente cultura di massa. La potenza di tale apoteosi fu tale da dare l’idea che la morte fosse proprio assente.
“«La Morte e la Bellezza», aveva scritto Hugo una decina di anni prima, «paiono due sorelle terribili e feconde/con uno stesso enigma e uno stesso mistero». In quanto sorelle condividono lo stesso fascino e la stessa ambiguità. Facilmente potranno allora anche scambiarsi: prendere il posto l’una dell’altra. La bellezza è l’unica cosa che può distrarci dalla morte. Ma soprattutto è l’unica cosa che può distrarre la morte da noi.” (Op. cit., p. 33)
Il sonetto citato dalla Serra era indirizzato alla figlia di Théophile Gautier: autore di racconti fantastici, fra cui La morta innamorata (1836).
“Clarimonde è la donna vampiro, il diavolo tentatore che torna dall’aldilà per sedurre un giovane pretino, ancora poco saldo nella sua vocazione. Soprattutto, si tratta di una donna bellissima: così bella da sembrare una statua di marmo, invece che una «donna viva».” (Op. cit., p. 34)
Morte e bellezza hanno in comune una cosa: tolgono il peso della carne. Ma, scomparso quello, cosa resta? Ne parla Ch. Baudelaire, ne La morale del giocattolo (1853). I balocchi sono una versione più smagliante della vita reale. Il bambino ama romperli, per cercarne il segreto… l’anima. Che non si trova. Perché quell’anima era l’effetto creato dall’interezza del giocattolo. Coincideva con il suo integro splendore.
Ecco che il poeta, per poter perdere il peso della carne e divenire immortale come Hugo, deve fare sapiente uso di morte e di bellezza. Non deve distruggere il giocattolo, ma dargli una forma inalterabile. Come fece Gautier con Clarimonde, De Saint-Pierre con Virginie, Poe con Lenore e Ligeia… Tutti questi personaggi femminili (ricorda la Serra) sono gioielli: oggetti idealizzati, sottratti alla desublimazione della decadenza fisica.
Fra i “gioielli”, c’è l’Ofelia shakespeariana: personaggio di quell’Amleto ove il morire è accostato al dormire. Il celebra quadro di John Everett Millais che la ritrae risale al 1851: epoca in cui l’Europa si rendeva conto degli abusi a cui poteva portare la fissazione per i fenomeni dell’ipnotismo e del sonnambulismo.
Sonnambule e ipnotizzate erano donne, perlopiù – mentre il ruolo magnetico di medico e ipnotizzatore era prettamente maschile. Lo stato di sonno indotto in lei, poiché ne annullava la volontà, avrebbe potuto trasformarsi in un lasciapassare per qualunque trasgressione o violenza.
Cosa rimane della donna separata dal suo intelletto? Un ritratto, come quello ovale di Poe; o una “vecchiaccia”, residuo dell’idealizzazione. Se l’effigie può restare bella per sempre, alla carne ciò è interdetto.
La figura femminile è costantemente in bilico fra due animali: l’uccello (senza doppi sensi), emblema di perdita del peso terrestre, e la scimmia: promemoria della bestialità umana. Su questo gioca King Kong (1933): l’eros abnorme è rappresentato dalla scimmione, sconfitto dalla bellezza – ovvero, dalla sublimazione.
Come il corpo di santi e imperatori, quello della donna è una macchina della verità a doppio fondo: dietro la bellezza ideale, l’orrore dell’escremento. Vedere l’uno o l’altro dipende dalla prospettiva di un autore. Di per sé, sono inseparabili.
Anche nella famosa mercificazione di questi corpi, il nitore di una modella si sposa alle prosaiche esigenze di mercato. Ma l’esigenza di moltiplicare all’infinito il sacrificio della bella ha portato allo scoperto l’aspetto squallido.
La sfida posta all’artista è saper riproporre qualcosa che non sia stereotipo. E tutto questo con l’inquietante certezza che ci offre Francesca Serra: l’omicidio femminile è un mito fondativo della nostra cultura.
Erica Gazzoldi